Nel football che muove i miliardi, tifare è diventato impossibile.
L’odore acre di un fumogeno, il gusto inebriante di un Caffè Borghetti, la stanchezza di una giornata intera passata a preparare la coreografia del giorno dopo: non sono elementi fantastici di un immaginario mitologico, ma l’essenza stessa del tifo da stadio – o, per esprimerci con quella radicalità propria delle cose grandi, l’essenza stessa del football. Ora, se non capiamo che fumogeno, borghetti, coreografie, in altre parole il linguaggio simbolico-rituale del calcio, costituiscono l’esperienza stessa del gioco, non capiremo neanche la tesi che in questo articolo si tratta appena di accennare, lasciando che sia l’esperienza diretta a rivelarne la verità: il futuro del calcio è delle serie minori.
Sempre più ragazzi di stadio si allontanano dalle curve di città per riversarsi (e reinventarsi) nelle curve del paese o, addirittura, del quartiere. È una dinamica che in altri paesi del mondo, dove la cultura calcistica vive del – e impregna il – quotidiano, è già in atto da tempo. L’esempio classico è quello del calcio inglese, dove la superpatinata e superappariscente Premier League inizia a stancare il tifoso medio inglese, quello della working-class ancora pronto a vivere per il football (e non per i top players), per i suoi simboli e la sua storia.
«Se una volta mi svenavo per seguire la Premier League, oggi soltanto in questi campi posso ritrovare il calcio di cui mi sono innamorato da bambino. Ogni stadio di non-League per me è un piccolo universo dove posso perdermi per ore, osservando le persone, la passione nei piccoli gesti, la cura per i dettagli, qualcosa che si trova soltanto in questo contesto», ci aveva candidamente confessato Stefano Faccendini tempo fa su Contrasti.
E così Simone Meloni, uno dei massimi esperti di tifo italiano, che abbiamo avuto il piacere di intervistare in occasione della stesura di questo articolo: «chi mastica lo stadio si è rotto le scatole di vivere determinate dinamiche. Di sentirsi solo un pezzo del puzzle e non un ingranaggio fondamentale. Ho sempre detto che l’humus del calcio italiano sono le realtà provinciali, almeno per l’aggregazione, il tifo e la socialità».
Come ci ha rivelato Pierluigi Spagnolo, altro grande esperto di cultura ultras in Italia, nelle serie minori ancora «si affollano vecchi gradoni, zone affrancate da codici comportamentali, senza posti a sedere da rispettare, in cui la disciplina non è (ancora) un obbligo di legge, dove i controlli sono meno stringenti e la libertà di tifare è (ancora) possibile. Dove gli strumenti del tifo, dai tamburi alle torce, non sono (ancora) da dichiarare alla questura o da bandire aprioristicamente».
Immagine di copertina: Valerio Caprino (portfolio qui), che ringraziamo. I giocatori della Cavese esultano sotto il settore ospiti durante Trastevere v Cavese 0-1 (Serie D) dello scorso 25 febbraio 2024