Francesco Aldo Fiorentino
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Il surf sarà presente nel novero degli sport alle prossime Olimpiadi. Tra i surfisti duri e puri la notizia non è stata digerita bene per diversi motivi a partire dal concetto di “inclusione”. Ai praticanti della prima ora di questo rito laico non piace infatti essere inglobati né tantomeno legittimati da un ente esterno come il CONI per poi venire sbattuti in una arena di intrattenimento mondiale qual è diventata la massima competizione sportiva internazionale.
Messa giù in questo modo può sembrare che i surfisti siano un branco di snob ma non è affatto così. Non è semplice spiegare cos’è il surf per un surfista senza finire nelle lande della mitopoiesi: quei territori in cui ogni adoratore delle onde che si rispetti va e viene a suo piacimento ogni volta che prende in mano la sua tavola per metterla in acque perigliose, trasmutandosi d’incanto in Silver Surfer. Il surf non è solo uno sport: molti dicono che sia uno stile di vita, altri un attitudine mentale ma in realtà è una vera e propria cultura che ha origini millenarie.
Il nomadismo selvaggio on the road e l’approccio trascendentale collegato al corpo, così come la preparazione fisica, sono componenti della vita del surfista ma non la sua essenza dal momento che il surf nasce come un’ideologia. Una visione del mondo sviluppatasi migliaia di anni fa, in isole da sogno sperdute e perdute, lontane da guerre di religione e di imperi, da esigenza di lavoro, da produzione e accumulo. Laggiù il surf era un modo per onorare il pantheon degli dei benevoli e per selezionare le cariche più alte in una società il cui unico fine era quello di scivolare in armonia sulle onde.
Quando gli europei giunsero alle Hawaii la prima cosa che fecero fu distruggere questa civiltà e la sua ideologia per imporre la loro che era in completa antitesi. A quelle latitudini, per più di un secolo, la pratica del surf fu bandita, cancellata, annichilita. Da rituale quotidiano diffuso si trasformò in un culto carbonaro. Il surf piano piano riprese poi a diffondersi e giunse sulla costa californiana da prima come attrazione di esotica destrezza poi come pratica da sportivi. I nuovi surfisti non erano però propriamente uomini di sport bensì giovani selvaggi che non c’entravano nulla con i loro coetanei dediti al football o al baseball.
Come per osmosi avevano recuperato lo spirito originario del surf adattandolo ai loro tempi e a nuove spiagge, rifiutando il lavoro e conducendo una vita nomade su macchine vecchie e scassate, invece di una vita stanziale in villette a schiera e automobile ultimo modello nel vialetto, alla ricerca insaziabile di onde fino al fatidico e sacrale pellegrinaggio alle Hawaii.
Lo spirito del surf, nel profondo, è fondamentalmente rimasto immutato. L’anelito è lo stesso: “Surfing is life , the rest is a detail”.
Nomadismo, dicevamo, che significa fuga dalle regole dell’ordine costituito: i pericoli che possono rappresentare i surfisti agli occhi di un benpensante sono insidiosi perché difficili da reprimere e il più delle volte sono infrazioni di ordine di morale e di consuetudini correnti. Così si cerca di controllare il surf con metodi subdoli come renderlo uno sport a tutti gli effetti, irrigimentandolo nei contest e trasformandolo in un prodotto vendibile ai più. Da decenni il gotha del surf è spaccato tra surfisti che partecipano alle competizioni internazionali e surfisti che li rifiutano, arrivando addirittura a osteggiarli, ma fino a un decennio fa, grosso modo, la spaccatura non era così evidente perché il surfista era del medesimo tipo con la stessa ideologia condivisa e veniva dallo stesso humus.
Certo, ad un certo punto per opportunità diventava un pro surfer. Ad esempio, un surfista come Tom Curren era un pro competitivo e innovativo ma era al contempo un soul surfer purissimo e come tale ragionava e si comportava; quando abbandonava il circo del circuito dei contest tornava a surfare anonimamente per il semplice piacere di farlo. Poi le cose sono cambiate: i contest, dalla metà degli anni ’80, hanno privilegiato gli spot non in base alla qualità delle onde e alla stagione migliore per queste ma in base agli interessi degli sponsor prediligendo così un posto con magari onde scadenti in quella stagione ma appetibile per un vasto pubblico.
Il mondo delle tavole ha visto poi ulteriori cambiamenti con l’immissione di nuovi “surfisti” favorita dai voli low cost e dall’affermarsi dell’industria che gira intorno al surf, a partire dalla moda. Da un certo periodo, approssimativamente individuabile negli anni ’90, anche la tipologia del pro surfer cambia perché con il debordare del surf-mondo nel real-mondo il surfer diventa un modello e il pro surfer un atleta provetto oltre che un abile business man che quando non surfa gioca a golf, vedasi Kelly Slater. Il surf dunque è stato omologato e snaturato dal real-mondo.
L’ammissione o inclusione alle olimpiadi è una seria minaccia, più che una opportunità , per il surf ed accentuerà la spaccatura che in questi decenni si è creata. È nato un nuovo tipo di surf omologato caratterizzato da spostamenti aerei da un resort a l’altro, piscine con onde artificiali perfette 24 al giorno, 7 giorni su 7, tavole a controllo numerico fabbricate in Asia da persone sottopagate e addirittura, udite, udite, tavole da surf che restano sospese in aria, le cosiddette tavole jetfoiler. Per fortuna però continueranno ad esserci surfisti che non si faranno imbonire dai venditori di queste diavolerie. Il sacro fuoco è nelle loro mani.