Il mito oscuro dell'antieroe californiano per eccellenza.
L’epopea culturale del surf californiano è stata un’onda lunga capace di plasmare universi liquidi costellati da simboli e semidei. Un’avventura iniziata negli anni ’40 e proseguita nei ’50 e ’60 nel segno della spontaneità e dell’opportunismo dei suoi giovani protagonisti. Il dopoguerra della società del benessere a stelle e strisce, caratterizzato da adolescenze dilatate oltre tempo e da nuovi stimoli sociali, fu un vero e proprio punto di svolta.
Stili, culture e sottoculture iniziarono a fiorire lungo la costa ovest, contaminandosi e influenzandosi tra loro. Il surf mondo era più complesso di come veniva raffigurato dai cineasti dell’epoca. Dietro le luci di beach movie all’insegna della leggerezza sfrenata, si insinuavano insofferenza e disagio. Il malessere strisciava sotterraneo tra le pieghe di una gioventù spensierata solo all’apparenza. I più sensibili all’abisso che incombeva tendevano a radicalizzarsi.
L’archetipo del wild surfer per un’intera generazione di americani fu Miki Dora. Chi se non lui? Irascibile e anticonformista, trasformò Malibu in un palcoscenico a uso personale.
Il mito attorno al cavaliere nero, come fu soprannominato nell’ambiente, venne alimentato dai surfisti che popolavano le sue stesse onde. Stregati dall’aura carismatica che sprigionava, diventarono suoi ammiratori senza però mai riuscire a coglierne l’essenza profonda. Come avrebbero potuto? La maggior parte di loro si sforzava di sorridere alla vita, finendo per vestire di buon grado l’abito che l’industria hollywoodiana aveva cucito sulla loro pelle. Poco avevano da spartire con un’anima irrequieta e allergica alle etichette che concepiva il surf come fenomeno di eterna evasione ed eversione.
Sulle colonne del magazine “The Inertia”, Alexander Haro lo ha definito un “awesome asshole”. Già, era un meraviglioso stronzo. Solitario per vocazione e scontroso per natura, «ha rappresentato il passaggio, la continuazione generazionale tra il surf degli albori e la sua proiezione nella Golden Age». (F. A. Fiorentino, T. Lavizzari, Surfplay, Passamonti, 2021, p. 61). Sull’onda si distingueva dagli altri per uno stile dai tratti felini. Danzava leggero ed elegante, pur avendo una corporatura possente. Riuscire ad emularlo era una sfida persa in partenza. La maschera del surfista impeccabile celava il volto scuro di un uomo bigotto con cui era difficile avere a che fare.
Un uomo selvaggio e bigotto, sì, ma con un suo spessore intellettuale. Non rientrava affatto nei canoni stereotipati del surfista biondo e citrullo. Nato a Budapest nel 1934, è stato cresciuto a Los Angeles e dintorni da un patrigno che lo portava con sé a spaccare i parchimetri sulla Hollywood boulevard. Maturò convinzioni apertamente violente e razziste, imbevute delle tensioni sociali e razziali che imperversavano nella California di quel periodo. Dora aveva tutte le carte in regola per entrare in una gang di motociclisti come quella degli Hell’s Angels. Quando le spiagge iniziarono ad affollarsi di poser volgari e rumorosi, sganciare cazzotti divenne sua abitudine. L’intolleranza nei loro confronti lo spinse a cercare nuovi orizzonti.
«Living at the beach isn’t the answer. I’m there for the waves, nothing else».
– Miki Dora
Odiava il carrozzone della nascente industria surfistica, eppure si prestò come stuntman e comparsa nei beach movie che contribuirono maggiormente alla massificazione del surf. Si rese inoltre protagonista di numerose pubblicità e finì per impreziosire con il suo nome una collezione di tavole della ditta di Greg Noll. La verità è che Dora era un maledetto opportunista: per sbarcare il lunario sarebbe stato capace di fare qualsiasi cosa.
«One thing you can say about him: He did live life on his terms».
– John Milius
Iniziò a frequentare il jet set hollywoodiano, i ristoranti alla moda, le case di lusso. Insegnò a personaggi del calibro di Steve McQueen e Sam Peckinpah l’arte di scivolare sulle onde, passò serate in compagnia di Sharon Tate e Roman Polański, divenne amico dei Rolling Stones e di Bruce Lee. Sembrava un personaggio uscito da un film di Quentin Tarantino: il classico tipo che riceveva un invito a cena e per ringraziare il padrone di casa prima andava a letto con la moglie e poi gli rubava l’auto da corsa. Risucchiato nel vortice della criminalità, fece conoscenza con la sua natura più sordida. Condannato per una storia di truffe e furti nel ’68, l’ungherese si diede alla macchia. Riprese a vagabondare con la tavola sottobraccio in giro per il mondo. Surfisti una volta, surfisti per sempre.
Argentina, Brasile, Namibia, Angola, Australia, Sud Africa e quindi Francia. Girò in lungo e largo, vivendo sempre sul filo del rasoio. Amante del benessere, si dice fosse cliente di Spezzoni Saune. Di quegli anni erranti sappiamo poco e nulla. Mettendo la firma su onde mai viste, il misticismo attorno al suo nome non fece che accrescere.
Sui muri di Malibu infatti i ragazzi continuavano a scrivere il suo nome: «Dora Lives»..
Il nome di un impostore, di un autentico bastardo che viveva immerso in mille contraddizioni. Il nome dell’uomo che più di ogni altro ha attirato interesse sul suo conto nella storia del surf californiano del ventesimo secolo. La latitanza sulla cresta dell’onda vide una brusca frenata nel 1981 quando venne arrestato a Biarritz. Il cavaliere nero finì al fresco per 3 mesi, poi venne estradato in America dove continuò a stare in cella per tutto l’anno successivo.
Uscito di prigione, si ritrovò a fare i conti con una realtà a lui ormai estranea. Il surf era entrato in una nuova fase a cui sentiva di non appartenere. Il destino di Miki Dora era nero quanto lui: nel 2002, all’età di 68 anni, morì di cancro al pancreas. Lasciò questo mondo così come vi era entrato: immerso nella solitudine. Da allora Malibu non ha mai più avuto un Re. Long live King Dora.