Calcio
26 Aprile 2021

Che calcio sarebbe senza bidoni?

Alcuni giocatori sono umani come noi.

Il calcio ha la sua essenza nei grandi giocatori e nelle loro giocate più sorprendenti: tocchi di palla, dribbling, gol, interventi difensivi ci tengono gli occhi incollati al pallone. Siamo attratti magneticamente da quella sfera difficile da controllare che ci rotola dentro da quando iniziamo a prendere le misure al mondo. Iniziamo in tenera età, talvolta ancora incerti nell’espressione ma ben consci di quello che vogliamo.

 

 

Vediamo in campo i nostri beniamini e sogniamo, un giorno, di ripercorrerne le gesta in uno stadio gremito di gente che urla il nostro nome. Crescendo, magari dopo le prime esperienze nelle scuole calcio, incominciamo però a capire che questo sport non spaccia sogni gratuitamente, e che quei campioni che vediamo in televisione provengono da un pianeta che per me noi rimane irraggiungibile.

 

 

Ci rendiamo conto che tra il pensiero e l’azione intercorre un oceano di intenzioni rimaste in potenza per limiti fisici o per mancanza di talento. Ce ne accorgiamo un po’ alla volta, allenamento dopo allenamento, al sabato pomeriggio nella partita con gli altri pari età nel campo che confina con la chiesa o al campetto del quartiere dove le porte sono alberi. È forse a questo punto della storia che il nostro sguardo sull’iperuranio calcistico inizia a posarsi anche su chi campione non è: meglio, sui bidoni.

 

bidoni muriqi
Tra De La Pena, Mendieta e l’ultima stella, Vedat Muriqi, la Lazio da sempre fucina di bidoni (Marco Rosi – SS Lazio/Getty Images)

 

 

Iniziamo ad appassionarci alle storie di chi non ce la fa ad arrivare al livello degli altri e che in qualche modo sembra essere la nota stonata in una sinfonia perfetta. Leggiamo i voti stroncanti delle penne sportive come il 4 rifilato al napoletano William Prunier dopo un Roma-Napoli finito 6-2, ma soprattutto il giudizio che lo correda: «Balbo lo fa arrossire, prima di lui manda in gol anche Candela». Quel giorno all’Olimpico, oltre a farsi trapassare da Candela, il buon William rimane impalato come un cartonato pubblicitario anche in occasione del tre a zero di Balbo (quel giorno farà tripletta), facendo addirittura alzare dalla poltroncina della tribuna un Massimo D’Alema mai così ìlare.

 

Leggendo il giudizio dei giornalisti, rivedendo le immagini, siamo in un certo senso partecipi della sventura del povero Prunier. Ci ridiamo su e magari lo insultiamo anche, ma rivediamo in lui le nostre disavventure.

 

Rivediamo il nostro imbarazzo in mezzo al campo contro un avversario troppo forte, riviviamo il giorno in cui siamo stati presi a pallonate da quel ragazzino venuto da un altro quartiere a giocare al nostro campetto.

 

In memoria del povero William Prunier, stabile nell’Olimpo dei bidoni

 

 

La nostra percezione del calcio cambia quando ci accorgiamo che i giocatori non sono dei robot e che spesso anche a loro, che di mestiere tirano calci a un pallone, può capitare di essere fuori luogo. Come quando il Perugia dello spericolato Gaucci pensò di trovare nel centravanti iraniano Ali Samereh la punta di diamante dell’attacco affidato alle cure di Serse Cosmi. L’Inzaghi di Persia, così venne presentato.

 

 

Il 26 agosto 2001 quando, alla prima di campionato, scende in campo dall’inizio contro l’Inter a San Siro, è nient’altro che un pallino rosso che sbatacchia senza nulla potere contro i marcantoni nerazzuri Materazzi e Cordoba. La sfida termina 4 a 1 per l’Inter, la rete del Grifo la mette a segno il greco Vryzas. Samereh? Non pervenuto. Troppo leggero, troppo isolato, troppo distante dal livello dei giocatori di Héctor Cúper e troppo lontano pure da quello dei suoi compagni di squadra. Insomma, troppo tutto.

 

 

Nonostante un curriculum dignitoso, il bomber Samereh sembra decisamente inadatto per la Serie A. Non ci sarà riscatto dopo quell’esordio ma solamente una via crucis fatta di spezzoni di partita e culminata con la stazione finale: l’aeroporto per il rimpatrio forzato a fine campionato. Di Samereh se ne dimentica in fretta il nome, si perdono le tracce: rimane solo il suo soprannome, Inzaghi di Persia, a memoria dell’abbaglio collettivo. A ricordarci come la sua parabola sia simile a qualcosa che in molti abbiamo provato almeno una volta nella vita.

 

Quella sensazione di essere finiti nel posto più sbagliato che ci sia: che sia l’arrivo in una nuova scuola, un’esperienza lavorativa che tradisce le attese fin da subito o il coinvolgimento in una storia sentimentale che fa acqua da tutte le parti fin dal primo bacio.

 

Ci si sente un po’ come Samereh, a faticare come muli senza riuscire ad invertire l’inerzia degli eventi. Nonostante l’impegno, nonostante si abbiano alle spalle varie esperienze, nonostante ci si creda pronti, sul pezzo.

 

Ma ci sono anche le volte in cui, pur di non misurarsi con una realtà che non ci piace, vorremmo scomparire, fuggire lontano facendo perdere le nostre tracce. Come era solito fare Johnnier Montaño, folletto colombiano tanto abile con il pallone tra i piedi quanto capace di sparire all’improvviso, perdendosi nella natia Colombia. Eppure a Johnnier il talento non mancava. Appena maggiorenne fa le sue apparizioni con la casacca del Parma, e riesce pure a realizzare una rete di pregevole fattura nella partita di Coppa Uefa con il PSV.

 

 

Mica bruscolini. Poi il prestito “formativo” nel Verona di Alberto Malesani, a far compagnia a Mutu e Camoranesi, e la prima evasione. È la vigilia di Natale del 2001, il colombiano si imbarca per le ferie in Sudamerica ma poi fa perdere le proprie tracce. Il giocatore non è più raggiungibile nemmeno al cellulare e due dirigenti del Parma sono costretti a volare in Colombia per cercarlo. Per riportarlo in Italia hanno bisogno di braccarlo come si fa con i criminali, visto che Montaño dimostra una certa fantasia anche nel crearsi vie di fuga.

 

 

Prima sfrutta la copertura di un amico meccanico per smaterializzarsi, poi utilizza le scale antincendio della casa della fidanzata per eludere l’intervento dei due maldestri agenti parmigiani giunti sul posto. Un anno dopo, sempre per le festività natalizie, il colombiano, finito nel frattempo nel Piacenza, evaderà ancora. Stavolta però, visto il rapporto costi-benefici, il Parma non manda nessuno a cercare il giocatore che se ne tornerà spontaneamente in Emilia a febbraio, dopo aver espletato i suoi comodi. È inutile dire che la sua carriera in Italia finisce qui, e che nel suo futuro ci saranno solo squadre con meno pretese dislocate tra Sudamerica, Qatar e Turchia.

 

gaucci bidoni
Luciano Gaucci, presidentissimo dai colpi di mercato (e bidoni) improbabili.

 

 

La traiettoria della sua parabola lascia un messaggio che parla di insubordinazione a logiche lavorative contemporanee, a responsabilità professionali, a doveri riportati da un contratto firmato. Il giovane Montaño compie un atto di luddismo moderno. Non potendo prendere fisicamente a picconate la struttura professionistica italiana, che lo opprime con regole ferree, tenendolo lontano dalla sua patria, decide di beffarla, sparendo fino a quando gli garba. Follia? Sicuramente. Ma anche un urlo libertario che tanti di noi sognano di poter emettere nel tran-tran di una vita passata tra i tabelloni luminosi delle stazioni di treni e metrò e le scrivanie di uffici con pareti di vetro.

 

Di storie come quelle di Montaño, Samereh e Prunier il calcio, lo sport in generale, è pieno e forse queste non sono nemmeno le più originali. Sono esempi: sono lì a indicarci come nel calcio – e nello sport – si sogna sulla gesta dei campioni ma si prova empatia per chi non ce l’ha fatta.

 

Per la schiera di “sfigati” che hanno raccolto più fallimenti che successi, perché in loro ci rivediamo anche noi. Nei loro volti spaesati, nelle loro smorfie, intravediamo le nostre piccole o grandi sconfitte. Dai tempi della scuola in cui quella professoressa di greco e latino ci regalava 4 come fossero caramelle; al campetto dove l’amichetto più bravo ci faceva perdere il fiato a forza di dribbling e tunnel beffardi; ai tempi dei primi amori quando, non riuscendo a far colpo sulla ragazza più ambita, ci toccava ripiegare sull’amica meno gettonata.

 

 

Quando al nostro capo non andiamo a genio e fa tutto quello che è nelle sue possibilità per metterci a disagio, quando ci capita di vivere situazioni scomode, a livello economico o familiare, che vorremmo lasciare lì, sul posto, sparendo da qualche parte, facendo perdere le tracce, almeno per un po’. Nei bidoni c’è molto di questo, in loro si trova il suo culmine il nostro processo di identificazione, l’immedesimazione nell’altro.

 

 

Siamo in campo con Samereh quando non riesce mai ad avvicinarsi al portiere avversario, siamo compagni di retroguardia di Prunier nel giorno in cui non è nient’altro che una “forte e statica quercia secolare” (altra trovata dei giornalisti senza cuore), siamo nell’aereo con Montaño quando vola alla volta di Cali. Siamo con loro e con chi come loro incappa in figuracce anche, e soprattutto, perché stare dalla loro è una scelta di campo precisa. È stare con la rotella che cigola in un ingranaggio che vuole essere perfetto, con il tenore che stecca nel momento dell’assolo, con il cameriere che rovescia il vassoio con la torta al banchetto nuziale. È stare con l’umanità. È fare proprio il famoso monito del fumettista Gipi:

Fare schifo, in una società che obbliga all’eccellenza, è un preciso dovere morale.”

 


Francesco Andreose è fondatore e autore del sito Non chiamateli provinciali


 

 

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