La narrazione calcistica è costellata di parole ed espressioni che vengono dispensate senza troppa parsimonia, termini che diventano buoni per ogni stagione, per i contesti più diversi. Diventano funzionali a un certo tipo di racconto che trasforma il fatto sportivo trasformandolo in qualcos’altro.
Un finale di partita, particolarmente vivace, diventa un thriller degno di Hitchcock; una trattativa di mercato piuttosto incerta e lunga, una telenovela; le prime prodezze di un virgulto del pallone, la certificazione del titolo di prodigio. E ancora quella serie di “campione” affibbiati anche a chi in campo non ha vinto molto di più qualche trofeo nazionale, per non parlare dell’altra faccia della medaglia, quel fenomeno che, eccezion fatta per Nazario de Lima e pochi altri, viene associato a chiunque si sia imposto ad alto livello con una certa continuità.
Basta fare una banale ricerca sul famoso motore per trovare il termine fenomeno accostato a Dybala o Kulusevski, ma anche a Theo Hernandez e, fino a qualche mese fa, anche a Dries Mertens. Insomma, le parole sembrano uscire dalle bocche degli uomini di sport e dalle tastiere dei giornalisti con una facilità imbarazzante. Ma l’abuso più odioso riguarda il termine “favola”. Lo si usa, a mo’ di prezzemolo, un po’ in tutte quelle situazioni in cui un calciatore o una squadra compiono qualcosa di significativo e di importante sul piano personale o collettivo, meglio ancora se controvertendo ogni pronostico.
Sul finire degli anni Novanta si parlava della favola dell’Udinese, nei primi Duemila di quella del Chievo; fu poi la volta – a più riprese – della favola del Sassuolo e di quella ancora in fase di svolgimento dell’Atalanta. Tutto va bene per stendere una melassa di ingenua innocenza su un gioco che ne è sprovvisto fin dagli albori, dall’epoca dei pionieri, quando si scendeva in campo solo per “passione”. Parlare o scrivere di favola velocizza il processo che cementifica lo spirito degli appassionati intorno alle gesta dei propri beniamini.
È un’utile scorciatoia per spiegare un fenomeno, raccontare un fatto, riducendolo a una parola, favola appunto, e allontanandolo anche dal significato originario del termine. Dizionario alla mano, la favola è una breve vicenda, narrata in versi o in prosa, i cui protagonisti possono essere persone, animali o cose, e il cui fine è di far comprendere in modo facile e piano una verità morale. Ora, se ripensiamo alle favole calcistiche sopra citate, ci viene difficile trovare in esse una verità morale e a ben guardare anche l’aspetto magico.
I talenti scavati in fondo a un Pozzo
Prendiamo l’Udinese di fine anni Novanta, capace di issarsi fino al terzo posto in campionato e a sorprendere in Coppa Uefa. Il club, presieduto dal facoltoso imprenditore Giampaolo Pozzo, poteva contare di una fitta rete di osservatori che potevano scandagliare i campi di mezzo mondo per portare in Friuli i migliori prospetti da Sudamerica, Africa ed Europa. Una processione di nomi esotici, totalmente avulsi dalla realtà locale, ma pronti a fare le fortune della compagine bianconera. Così tra un cross del semisconosciuto Helveg, un dribbling del brasiliano Amoroso e una zuccata del tedesco Bierhoff iniziava la “favola” Udinese che valeva un terzo posto storico.
Un risultato sufficiente a coprire lo scandaluccio che proprio nel 1998 colpì – non sarà il primo e nemmeno l’ultimo – il patron dell’Udinese, accusato di falso in bilancio, frode fiscale e appropriazione indebita per complessivi 60 miliardi di lire (vicenda poi chiusa con patteggiamento nel 2004). La morale della favola? Il mondo è dei furbi.
A lezione daCampedelli
E il Chievo? Il Chievo no, dai, è la storiella della squadra di quartiere che scala la piramide calcistica nazionale, è la compagine simpatia seguita dai miti tifosi, nemmeno lontani parenti degli sporchi, brutti e cattivi ultras. Ma rileggiamo la favola con la giusta attenzione, partendo dalla storica promozione. Il Chievo della stagione 2000-2001 si fondava su un’ossatura – con i vari D’Anna, D’Angelo, Corini, Federico Cossato – collaudata da anni e da qualche scommessa come i giovani Corradi ed Eriberto.
Anche le prime stagioni in A, pur rimanendo eccezionali nei risultati, sono state una diretta propaggine del progetto iniziato anni prima. L’ossatura storica veniva cambiata poco alla volta, quando i senatori se ne andavano in pensione e i talenti più fulgidi venivano venduti, giustamente valorizzati. Contestualmente il club provava a puntare su qualche scommessa, anche pescando all’estero, o su elementi in cerca di rilancio.
Nulla di magico, insomma, ma tanta programmazione e buone plusvalenze, oltre ad una discreta dose di fortuna, che ci vuole sempre. Più che di favola sarebbe giusto parlare di modello Chievo. Un modello che negli ultimi anni ha visto la reputazione macchiata dall’affaire plusvalenze, lo scandalo in tandem con il Cesena che ha portato alla penalizzazione dei gialloblu e all’interdizione del presidente Campedelli. La morale, a volerla cercare a tutti costi, potrebbe suonare così: si nasce puri, ci si sporca crescendo.
Sassuolo e Atalanta
E infine veniamo ai giorni nostri, o quasi, con l’avvento tra i grandi del Sassuolo e la nuova dimensione europea dell’Atalanta. Due favole che con Esopo hanno poco da condividere. I neroverdi sono stati il giocattolo del defunto Giorgio Squinzi, titolare del colosso dell’edilizia Mapei e personalità di primo piano dell’imprenditoria nazionale, presidente di Confindustria, ma soprattutto mecenate dal portafoglio gonfio.
Quando ha deciso di puntare qualche fiche sul calcio i risultati sono arrivati uno dietro l’altro: la scalata al professionismo, la promozione in A e l’arrivo in Europa. Nel mezzo lo stadio Giglio che diventa Mapei Stadium, monumento laico alle capacità imprenditoriali dell’uomo. Nel 2021, a poco più di un anno dalla scomparsa di Squinzi, il Sassuolo è un habitué della parte sinistra della classifica, può fornire giocatori alla Nazionale e vantare una rosa dal valore di poco superiore ai 202 milioni di euro. La nona della Serie A.
Un discorso che, con le differenze del caso, può valere anche per l’Atalanta, parte integrante di una mastodontica holding, l’Odissea, con la quale il presidente atalantinoAntonio Percassi controlla il suo business. Una costellazione di società attive nel retail, nell’immobiliare e nello sport, capace di generare nel 2019 – secondo i dati riportati da Calcio e Finanza – un fatturato di 623,5 milioni di euro, in crescita di 77,6 milioni. Un sistema in cui l’Atalanta contribuisce, anche grazie ai suoi risultati sul campo, in maniera tangibile con il suo utile 2019 di circa 26,5 milioni di euro.
Insomma, se per la prima storica Champions League orobica, Gasperini ha potuto contare sulla forza prorompente di Zapata (riscattato pochi mesi prima dalla Samp per 14 milioni), sulla velocità di Muriel (pagato 20 milioni al Siviglia) e sull’imprevedibilità di Malinovskyi (comprato per 12,5 milioni da Genk) da qualche parte i denari dovevano arrivare. Perché per dirla in bergamasco i soldi I vé mia sö sö i piante (non crescono sulle piante).
Se volessimo ostinarci a chiamarle favole, la morale sull’asse lombarda-emiliana insegnerebbe questo: l’amore fa molto, il denaro fa tutto. Un po’ tristarella no?
Quelle citate sono tutte grandi storie di sport. Ognuna di esse ci ha appassionato, sarebbe ipocrita negarlo. Ci ha fatto anche gioire, perché vedere vincere sempre i soliti non piace mai, ma ci hanno anche ricordato, a bocce ferme dopo la sbornia da novità, che le favole non nascono nei campi da calcio professionistici.