«In questi giorni di guerra Belgrado pullula di ubriachi. Pare che il consumo di alcol e sedativi sia schizzato alle stelle», scrive Dusan Velickovic nella sua raccolta di brevi storie intitolata “Serbia Hardcore”. L’opera è un affresco dell’aria che si respira nella capitale serba dal 23 marzo del 1999, quando l’allora segretario generale della Nato, Javier Solana, annuncia l’inizio dei bombardamenti “intelligenti” nel cortile di casa dei belgradesi con l’intento di costringere Milosevic ad arrendersi. Sarà il primo bombardamento di una città europea dal secondo conflitto mondiale e violerà pesantemente vari cardini del diritto internazionale, tra cui l’accordo di Helsinki del 1975, che definiva intangibili i confini degli stati continentali.
L’operazione Allied Force tuttavia è solo il culmine delle varie violazioni del diritto internazionale avvenute nei Balcani durante i sanguinosi conflitti degli anni ’90 del secolo scorso, troppo comodamente liquidati dalla stampa mondiale come conflitti inter-etnici o descritti come un ritorno alla barbarie dei popoli in lotta. Nei Balcani invece la verità è sempre altrove, e il passato non è mai passato. Ne è ben consapevole Slobodan Milosevic, che sa sfruttare a pieno i mezzi di comunicazione a sua disposizione per un’abile azione di dezinformacjia, al fine di instillare nel popolo serbo un odio verso le altre nazionalità che componevano una Jugoslavia ormai sull’orlo della dissoluzione, soprattutto a causa di una grave crisi economica e per via di dissapori verso la costituzione Titina del 1974.
Le sue idee nazionaliste trovano terreno fertile nella Serbia rurale, tra i serbi di montagna delle Krajine (Banja Luka in Bosnia e Knin in Croazia), e in coloro che incarnano quella che Radomir Konstantinović aveva definito la filosofia della Palanka, una particolarità tutta serba che simboleggia un mondo a metà tra città e campagna.
Il protagonista della nostra storia rappresenta appieno tale filosofia e lo strano intreccio tra calcio, politica, guerra e criminalità organizzata che ha caratterizzato le vicende dell’est europeo. L’uomo in questione è Željko Ražnatović, per tutti noto come Arkan. Željko e i suoi uomini, le tigri di Arkan, formeranno uno dei gruppi para-militari più attivi come braccio armato di Milosevic durante le guerre jugoslave, macchiandosi di quelli che il Tribunale penale dell’ex Jugoslavia giudicherà autentici “crimini contro l’umanità”.
Željko è figlio di un ufficiale dell’aviazione Jugoslava e nasce nel 1952 a Breznice, in Slovenia, mentre suo padre è lì di stanza. Trascorre la sua adolescenza tra Zagabria e Belgrado fino a che negli anni ’70 decolla la sua carriera criminale. È organizzatore e il complice di varie rapine in Belgio, Svezia e Olanda e anche nel nostro paese, dove nel 1974 viene arrestato e condotto nel carcere di San Vittore a Milano a seguito di una rapina in un ristorante. Nonostante sia costantemente nel mirino dell’Interpol, Željko, ormai noto nell’ambiente come “Arkan” (per motivi tuttora dibattuti), riesce sempre a rimanere a piede libero. Ciò fa nascere delle speculazioni circa il suo rapporto con l’UDBA, la polizia segreta jugoslava, la quale sembra si servisse di Arkan per eliminare vecchi oppositori politici di Tito all’estero e, in cambio, chiudesse un occhio sulle sue attività criminali in patria, fornendogli armi, protezione e documenti falsi.
Dopo la morte di Tito, l’ascesa al potere di Milosevic e il crescente nazionalismo figlio dell’idea della Grande Serbia si legano alla perfezione con il ritorno a casa di Arkan – e con il nuovo ruolo da lui assunto nei primi anni ’80, cioè quello di leader degli ultras della Stella Rossa.
A capo dei Deljie organizza la sua milizia, a cui il presidente serbo affida il lavoro sporco dopo lo scoppio della guerra. Arkan riesce a creare un esercito di fedelissimi tra le frange maggiormente eversive e pericolose dei tifosi che frequentano il “Marakana” di Belgrado, obbligandoli a seguire dei rigidi codici comportamentali e vietando l’uso di alcol e droghe. Iniziano quindi le azioni di guerriglia verso i tifosi croati e musulmani: tra le più famose la partita tra Stella Rossa e Dinamo Zagabria giocata al Maksimir il 13 maggio 1990, che di fatto non verrà mai disputata e si concluderà con l’invasione di campo pianificata dai Deljie, guidati da Arkan, per far sì che si arrivi volutamente allo scontro tra i tifosi di casa croati e l’armata federale Jugoslava.
Nel 1995 Arkan è ormai uno degli uomini più ricchi, potenti e temuti dell’intera Serbia, nonostante ufficialmente risulti un semplice proprietario di una pasticceria. Decide di sfruttare la sua fama e i suoi soldi e tenta di diventare presidente della Stella Rossa, senza riuscirvi. Opta dunque per un piccolo club di Belgrado, che fino ad allora aveva militato solamente nelle serie inferiori. A testimonianza del fatto che nei Balcani “il passato non è mai passato”, il nome del club da lui acquistato risponde al nome di FK Obilic. Nell’Europa occidentale infatti la figura di Milos Obilic rimane ai più sconosciuta, ma nel mondo slavo ha un significato particolare ed è strettamente connessa al Vidovdan, il giorno di San Vito, che si celebra il 28 giugno del calendario gregoriano.
Tutto ebbe inizio infatti il 28 giugno 1389, giorno in cui si svolse la Battaglia del Kosovo (la celebre Kosovo Poljie) e le truppe slave, guidate dal principe serbo Lazar, cercarono di difendere la cristianità dei Balcani dagli infedeli ottomani che facevano capo al sultano Murad I. Nonostante la battaglia della piana dei Merli sia stata una pesante disfatta per i serbi, essa rimane quale mito fondante della loro identità nazionale anche per l’eroico gesto del cavaliere Milos Obilic, che secondo la leggenda riuscì ad uccidere il sultano Murad I. L’eco delle gesta di Obilic permane nell’orgoglio nazionale serbo, e ispira il giovane Gavrilo Princip nell’attentato che fa da casus belli per la prima guerra mondiale: l’omicidio di Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro ungarico, compiuto durante la sua visita a Sarajevo per celebrare proprio la festa per il giorno di San Vito.
Non è un caso allora, secondo alcuni, che Arkan decida di acquistare la squadra che porta il nome dell’eroico cavaliere.
Dapprima svolge il ruolo di presidente ma, dopo aver scalato le serie inferiori, prende il patentino da allenatore per seguire la squadra direttamente dalla panchina. La cavalcata verso la serie maggiore è contornata di leggende e storie macabre, o perlomeno curiose: alcuni voci parlano addirittura di sequestri di persona, e di gas soporifero negli spogliatoi ospiti. Anche i suoi giocatori non sono esenti da punizioni piuttosto dure considerato che gran parte dei suoi miliziani, le tigri, si insediano nei posti di comando della società, mentre Arkan gestisce i suoi calciatori come aveva addestrato i suoi fedelissimi sul campo di battaglia. Secondo un’altro racconto, dopo una sconfitta in trasferta, i calciatori dell’FK Obilic vengono scaricati a trenta chilometri da Belgrado, e costretti a tornare a casa a piedi.
La squadra comunque riesce, con metodi decisamente poco ortodossi, a conquistare il massimo campionato nazionale nel 1997-98 e a qualificarsi per i preliminari di Champions League dell’anno successivo. Dopo aver battuto al primo turno i campioni islandesi incarica, l’FK Obilic trova sulla sua strada il Bayern Monaco e viene retrocesso in Coppa UEFA (dove subisce l’eliminazione per mano dell’Atletico Madrid di Arrigo Sacchi). Nel frattempo però la Uefa impedisce ad Arkan l’ingresso in Germania, minacciando di escludere il club dalle competizioni internazionali qualora rimanga presidente – Arkan, come risposta, avrebbe secondo molti pianificato l’omicidio del presidente della UEFA Johansson, non trovando però l’occasione adatta. Per aggirare le minacce della UEFA comunque cede la società a sua moglie, la celebre cantante Turbo-folk ceca, Svetlana Veličković.
Il loro matrimonio era stato celebrato in tv, in diretta nazionale, con una cerimonia che esprimeva perfettamente la già citata filosofia della Palanka e simboleggiava il decadimento dei valori nazionali serbi, che ormai preferivano un volgare turbo-folk alle vecchie canzoni locali.
Ma il 1999 è anche l’anno in cui iniziano i bombardamenti su Belgrado per mano della NATO, il campionato Jugoslavo viene interrotto e Arkan accusato di crimini contro l’umanità e genocidio: la “sua” era di violenza finisce poco dopo con l’assassinio nella hall dell’hotel Intercontinental di Belgrado, il 15 gennaio del 2000, freddato a colpi di arma da fuoco. Dopo la sua morte la striscia di vittorie e successi del FK Obilic, puntualmente, si interrompe, fino a quando la squadra non retrocede in seconda divisione nel 2005-2006. Nel frattempo la scomparsa di Arkan, pur essendo da molti accolta come una liberazione, ha continuato a dividere anche lo sport.
Sinisa Mihajlovic, su tutti, non ha mai rinnegato il rapporto con Raznatovic: «Nei miei anni a Belgrado l’ho frequentato per circa 200 sere all’anno. Diventammo davvero amici. Quando morì, pubblicai il famoso necrologio che mi ha attirato tante critiche: per il mio amico Zeljko, non per il comandante Arkan, capo delle Tigri. Non condividerò mai quel che ha fatto, e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita».
Ma a far discutere ancora di più è stato lo striscione della Curva Nord della Lazio, che senza mezzi termini recitava: “Onore alla tigre Arkan”. A quel messaggio reagirono sdegnati in molti, a partire dall’Alieno (e croato) Alen Boksic, sconvolto dal fatto che i suoi tifosi avessero inneggiato a chi aveva massacrato i suoi connazionali fino a poco tempo prima: «Sto male, molto male. Sono amareggiato e deluso anche perchè quella scritta viene dai miei tifosi. Hanno reso onore a quello che tutto il mondo considera un criminale di guerra contro il mio popolo. Davvero non si rendono conto di quello che fanno». Eppure lo stesso Boksic sul comportamento di Mihajlovic dirà:
“Con Sinisa abbiamo parlato del suo necrologio, ma per lui Arkan era un amico e forse avrei fatto anch’io la stessa cosa”.
Il problema, come al solito, è cercare di ricondurre le questioni balcaniche in chiavi di lettura a noi familiari. Semplificazioni che spesso ignorano le dinamiche dell’est europeo e certe ferite, ancora fresche, che non si sono cicatrizzate. Perché oggi noi, dal pulpito della storia, giudichiamo eventi che ci sembrano incomprensibili, appartenenti a tempi e a mondi lontani. Eppure, come affermava il giornalista bosniaco Nerzuk Curk: «L’Europa accetta la violenza di questa gente perché ci si è riconosciuta come in uno specchio». Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.
A Mostar si tratta di Est contro Ovest, Armata Rossa contro Ultras, operai contro nobili, stella rossa contro šahovnica. Quando si affrontano Velez e Zrinjski la Bosnia torna inesorabilmente indietro di vent'anni, ai tempi delle guerre jugoslave.
Leggi, approfondisci, rifletti. Non perderti in un click, abbonati a ULTRA per ricevere il
meglio di Contrasti.