Filippo Simonelli
1 articoli
Il 2 ottobre 2016, poco prima del fischio d’inizio di Zenit San Pietroburgo-Spartak Mosca, i fanaty della squadra di casa esposero una monumentale coreografia dedicata a Dmitrij Shostakovic. Lo sforzo della curva, caso probabilmente più unico che raro di omaggio ad un compositore da parte di una tifoseria, rappresentava al centro il grande volto del musicista contornato da note musicali e incorniciato da riproduzioni dei monumenti più celebri della “capitale del nord”; al centro, proprio sotto il volto di Shostakovic, la riproduzione dello stadio Petrovskij, che si accingeva ad ospitare per l’ultimo anno la compagine pietroburghese in attesa dell’inaugurazione di un nuovo impianto adatto alle esigenze e aspirazioni continentali del team azzurro.
Proprio sulle tribune del Petrovskij si era costruita buona parte della passione di Dmitrij Shostakovich per il calcio. E questo lo sapevano bene i tifosi dello Zenit, che avevano scelto di omaggiare i 110 anni dalla nascita del musicista, come lo sapevano bene i dirigenti del club, che continuano ad ospitare tra i propri abbonati il figlio del compositore Maxim e la sua progenie – com’è stato peraltro riccamente documentato in occasione del match, finito 4 a 2 ed arricchito dalle segnature di due vecchie conoscenze del nostro calcio, Mimmo Criscito e Salvatore Bocchetti.
Fin dai suoi primi passi, l’Unione Sovietica tentò di valorizzare al massimo il valore rigenerativo dello sport per formare l’uomo nuovo nato dalla rivoluzione proletaria.
Per favorire la diffusione più ampia possibile di questo ideale, le autorità dell’Unione lavorarono su numerosi fronti. Oltre alle memorabili parate e alle esibizioni pubbliche di ginnasti ed atleti, la commistione tra sport e altre forme espressive trovò forma specialmente nel balletto, arte in cui i russi erano maestri fin dall’epoca zarista. Nel corso degli anni ’20 fiorirono balletti come “Il calciatore”, musicato da Viktor Oranskij, che vide la luce addirittura nel teatro Bolšoj di Mosca, la cui ispirazione si evince senza particolari difficoltà già dal nome. In un clima culturale che mitizzava con crescente enfasi le capacità ginniche degli atleti, con grande spinta dall’alto ma altrettanto grande partecipazione popolare, non c’è da sorprendersi che sia maturata una grande passione fin da subito nel cuore del giovane Dmitrij, che avrebbe avuto presto occasione di sperimentare la propria creatività a servizio di quello sport.
Nel 1930 infatti il Teatro dell’Opera e del Balletto di Leningrado propose al musicista di comporre le musiche per un balletto, Dinamiade, il cui libretto era incentrato su una delicata trasferta della Dinamo, la squadra della NKVD (polizia del ministero degli interni sovietico), in una non meglio specificata terra capitalista ed ostile tra combine, aggressioni fasciste ed un lieto fine con tanto di rivoluzione locale. Shostakovic accettò con entusiasmo la proposta e, pur dopo numerosi ripensamenti e rimaneggiamenti ed un cambio di titolo, diede luce a “L’età dell’oro”.
Nonostante il successo pressoché unanime tra la critica “colta”, il balletto fu più volte censurato dalle autorità per via di alcune scelte coreografiche troppo occidentali, anche se questo era difficilmente imputabile al compositore, la cui unica colpa fu semmai quella di aver intrufolato nella sezione degli archi un americanissimo banjo, che però passò sostanzialmente inosservato. Sta di fatto che, al netto di qualche piccolo incidente di percorso, il balletto ebbe fortuna e fu probabilmente l’inizio del legame ufficiale tra Shostakovich ed il calcio.
Ai tempi de “L’età dell’oro” Shostakovich probabilmente era ancora solo un cultore del calcio. Ne apprezzava senza dubbio tutte le qualità e le spiccate affinità artistiche con discipline a lui più note, tanto da coniare l’espressione “Il calcio è il balletto per le masse”. Ma il passaggio tra questa fase ed il tifo è probabilmente da rintracciare intorno alla metà degli anni ’30, quando iniziò un rapporto di amicizia molto solido con Valentin Fëdorov, in forza all’allora Dinamo San Pietroburgo e secondo lo stesso compositore “uno dei migliori calciatori dell’Unione Sovietica nel ruolo di mezzala sinistra”, e all’influenza di Vladimir Lebedev, pittore ed arbitro di boxe. Grazie al primo, Shostakovich riceveva biglietti per le partite della Dinamo, anche in trasferta, a cui ricambiava con ingressi alle prime esecuzioni delle sue opere; il secondo invece fu, fino agli anni della guerra, compagno fidato di curva.
Complice anche una sorta di campanilismo un po’ naïf, in questa fase Shostakovich parteggiava comunque ancora per tutte le compagini di Pietroburgo-Leningrado, avendo entrambe calciatori a cui si sentiva profondamente legato.
Con la guerra ed il trasferimento forzato di tutta la famiglia a Mosca, il tifoso Dmitrij si trovò costretto a seguire le gesta dei suoi paladini per corrispondenza, tramite i racconti di amici fidati che gli riportavano in interminabili telefonate di cui poi lo stesso compositore riportava, con gratitudine maniacale, i dettagli nella successiva corrispondenza, e nelle non infrequenti trasferte moscovite. Provò a consolarsi seguendo anche altri sport, come la boxe o l’hockey, senza però grande trasporto e consolazione. Dopo la guerra e con un progressivo ritorno alla normalità, Shostakovich iniziò ad immedesimarsi sempre di più nelle sorti dei calciatori.
Isaak Glikman, amico fidato del compositore, ha conservato parecchi aneddoti relativi a questa tendenza. L’11 settembre del 1947 i due andarono a vedere una non meglio precisata partita insieme, in cui fece particolarmente scalpore la pessima prestazione del portiere Šorec, all’epoca quarantenne e fischiato dal pubblico come “vecchio” e “brocco”. Dopo la partita e una dose evidentemente significativa di vodka, Shostakovich, che anch’egli aveva superato da poco la soglia dei quarant’anni, aveva iniziato ad autocommiserarsi e a ritenersi anch’egli un vecchio brocco della musica. Glikman, che aveva da poco avuto osservato da vicino la genesi del suo Terzo Quartetto, probabilmente il primo vero capolavoro del genere, riuscì a dissuaderlo da tentazioni di pensionamento anticipato, per nostra fortuna.
Stando a quanto riportato da Alessandro Curletto e Romano Lupi, autori di un’agile ma dettagliata monografia sul rapporto tra il musicista e il calcio, Shostakovich esercitava su Glikman “una consapevole ma amichevole costrizione” verso il calcio, sport che almeno in origine non lo aveva particolarmente appassionato. Questa costrizione non prendeva forma solo nelle rituali partite della domenica, ma anche in una dettagliata corrispondenza in cui il nostro riportava dettagli infinitesimali delle partite a cui assisteva, al tempo stesso pretendendo lo stesso grado di accuratezza nei resoconti dei match dai quali era assente.
Forte di queste dettagliate informazioni, Shostakovich teneva un “libro mastro” del calcio, un casellario maniacale in cui contabilizzava gli esiti di ogni incontro tra le 14 compagini che si contendevano il campionato sovietico. Dal 1945 iniziò a tenere traccia degli incontri anche in una splendida agenda, regalo del grande David Oistrakh annotandoli minuziosamente come “titolo” della sua giornata, come una sorta di Nick Hornby ante-litteram. Fu inoltre abbonato, pressoché per tutta la vita, ai giornali “Sovetskij sport”e “Futbol-Chokkej”, di cui col tempo divenne una autorevole firma.
Shostakovic si definiva talvolta semplice tifoso, talvolta esperto e talvolta persino calciatore dilettante, anche se abbiamo poche immagini del compositore in azione e più che altro in funzione di didatta del figlio Maxim, a cui ha trasmesso oltre che un inequivocabile talento musicale anche la sua stessa passione calcistica. Circola però da numerosi anni una leggenda che vuole che fosse anche un arbitro ufficiale, e che avrebbe addirittura preso una sorta di “patentino” nei primi anni ’40, il periodo in cui il mondo imparava a conoscerlo come eroico pompiere di Leningrado e autore della Settima Sinfonia, simbolo della resistenza cittadina all’assedio delle truppe tedesche.
Questa voce, avvalorata anche dalle testimonianze di Sofia Chentova e del figlio Maxim, non è corroborata da documenti attendibili negli archivi della sezione arbitrale di Pietroburgo-Leningrado. Alcuni colleghi del Conservatorio di Pietroburgo però hanno sostenuto che esibisse, talvolta quasi ostentasse, un patentino di “Categoria repubblicana”, cosa che oltre a rappresentare probabilmente un riconoscimento simbolico, gli consentiva l’accesso gratuito a tutti gli stadi dell’Unione. Per la gioia di un vero cultore, prima ancora che tifoso di quella o questa squadra.
Il triennio 1956-1959 fu probabilmente l’unico momento in cui la frequentazione degli stadi fu meno intensa per motivi riconducibili alla volontà del compositore. Quei tre anni corrispondono alla durata del secondo matrimonio di Shostakovich, con tal Margarita Kajnova, funzionaria del Komsomol poco affascinata dallo sport in generale. Terminata con un divorzio questa breve parentesi, la presenza del nostro sulle tribune del Petrovskij si fece man mano più sporadica, complici anche gli incipienti problemi di salute che sarebbero culminati in una poliomelite ed un infarto nel 1966. A partire dal 1971 non gli fu più possibile frequentare lo stadio, ma non smise mai di seguire le sorti del suo club, che aveva assunto alfine la denominazione attuale di Zenit.
Dmitrij Shostakovich morì il 9 agosto del 1975, dopo numerosi ricoveri ospedalieri.
Al momento dell’ingresso nella clinica di Kuznevo che lo accolse, Shostakovich portò con sé il manoscritto della sua sonata per viola, il suo commiato musicale, a cui lavorò incessantemente dalla fine di giugno fino al 6 agosto, giorno in cui mise la parola fine alla sua ultima creatura. Dopo un 7 agosto molto travagliato in cui a malapena prese conoscenza, il giorno seguente riuscì a trovare le forze per alzarsi dal letto ed andare, naturalmente, a seguire una telecronaca calcistica dello Zenit, un atto dovuto “nonostante questo attaccamento mi procuri più amarezze che gioie”. Dopo aver assolto al suo ultimo compito da tifoso, si arrese il 9 agosto del 1975.