La Juventus perde punti con le piccole e medie squadre.
Andrea Agnelli lo aveva detto senza giri di parole: nel calcio di oggi ci sono «troppe partite che non sono competitive». Per i grandi club il gioco non vale la candela: poco appeal, scarsa audience e un’esposizione al rischio inversamente proporzionale ai guadagni sperati. Ed è un paradosso, o forse neanche troppo, che mentre il presidente dell’European Club Association (Eca) si fa promotore di un calcio d’elite, la sua Juventus arranca con le piccole.
I numeri dicono molto: i bianconeri hanno vinto 5 partite su 7 contro le ultime quattro della classe, lasciando punti preziosi col Crotone (1-1 in Calabria) e nel derby di ieri contro il Torino: una assoluta novità nell’ultimo decennio. Tendenza confermata dal rendimento contro altre squadre che Agnelli definirebbe “poco competitive”: un punto tra andata e ritorno con il Benevento, due con l’Hellas Verona e lo shockante 0-3 subito allo Stadium dalla Fiorentina.
Risultati che creano imbarazzo in casa Juventus, se non altro per le posizioni poco inclusive assunte da AA. Il presidente bianconero è finito infatti nel mirino di mezza stampa europea dopo l’eliminazione della Juventus dall’ultima Champions League. I quotidiani ostili alla Superlega – Le Equipe e The Indipendent su tutti – hanno ricordato le disfatte europee della Juve ‘ronaldiana’ contro Ajax, Lione e Porto. Non proprio avversarie di primo ordine in termini di fatturato e introiti televisivi. Emblematico quanto scritto da The Indipendent:
«Se Agnelli vuole riordinare il calcio europeo per assicurarsi che il suo club non perda così tanto, forse dovrebbe iniziare con quello che dovrebbe essere il suo lavoro: in primo luogo costruire una squadra vera».
Dopo l’investimento CR7, in molti si aspettavano il definitivo salto di qualità della Juventus in campo europeo. Invece, continua la stampa inglese «la Juve è un pasticcio disfunzionale e gonfio, caduto dalla Champions in uno di quei gloriosi casi di poetica giustizia che lo sport offre».
Non ce ne vogliano i tifosi ma le recenti prestazioni di Porto, Benevento e Torino contro la Juventus rappresentano la bellezza intrinseca del calcio; negarlo, sarebbe schiaffeggiare la storia di questo sport. Per citare alcuni esempi: il Maracanazo, il Leicester campione d’Inghilterra, il Verona tricolore, il semisconosciuto Nottingham Forest vincitore di due Coppe dei Campioni. O anche la magia dei giant killing in FA Cup, che hanno contribuito a creare il fascino della (ex) competizione più bella del mondo. Senza impresa non c’è sport, e il calcio è fenomeno che si nutre di imprese. Privarlo dell’etica e della poesia, sarebbe come snaturarlo.
Agnelli, dal canto suo, sta giocando invece la partita più delicata: ridurre il football a una questione tra ricchi, con partite tra ricchi col solo intento di diventare più ricchi. Ciò che vorrebbe è un calcio elitario, un po’ come accadeva agli albori, quando a sfidarsi erano gli studenti dei college inglesi cresciuti nelle classi privilegiate. Successe poi che si presero la scena i colletti bianchi del Blackburn Olympic che portarono per la prima volta la FA Cup a casa degli operai, aprendo il pallone alle classi meno abbienti e facendo del football il fenomeno sociale e popolare che tanto abbiamo amato. D’altronde, come dice Jorge Valdano:
“Il calcio è l’unica cosa che i poveri abbiano rubato ai ricchi”.
Ad Andrea Agnelli, però, non piace l’imprevisto: che ci fa ad esempio una Atalanta in Champions League? Come se la Dea, la migliore squadra italiana della scorsa Champions, fosse confinata in un universo opposto e parallelo. «Ho grande rispetto per quello che sta facendo l’Atalanta – ha detto un anno fa nel corso del Financial Times Business of Football Summit di Londra – ma senza storia internazionale e con una grande prestazione sportiva ha avuto accesso diretto alla Champions. Giusto o meno, penso poi alla Roma, che ha contribuito negli ultimi anni a mantenere il ranking dell’Italia, ha avuto una brutta stagione ed è fuori».
AA è quindi determinato a raggiungere l’obiettivo: la Superlega. Competizione a cinque stelle, stadi gremiti, audience da capogiro e divieto di entrata ai ‘piccoli’. Per l’Atalanta, il miglior prodotto recente del calcio italiano, non ci sarebbe posto. Se però la Superlega ha imboccato un percorso a ostacoli, è stata la UEFA a fornire l’assist decisivo ad Agnelli ed Eca con la “Super Champions”.
Il continente si è spaccato e in pochi sembrano aver fiutato il pericolo.
La Premier League custodisce un tesoro troppo prezioso da elargire con il resto d’Europa, anche se i grandi club sembrano aver concesso il placet alla “Super Champions”. In Spagna il presidente della Liga, Javier Tebas, è fortemente contrario al progetto. Il neo presidente del Barcellona, Joan Laporta, ha posizione analoghe. È rimasto isolato Florentino Perez, che non ha mai nascosto l’interesse della Casa Blanca alla Champions d’elite.
Soffia vento ostile in Germania dove i club, capitanati dal Bayern Monaco campione di tutto, appoggiano la riforma al contrario dei tifosi. Nel corso dell’ultimo ottavo di Champions tra Borussia Dortmund e Siviglia, il tifo di casa ha esposto sugli spalti del muro giallo uno striscione eloquente: «Stop UCL reforms». Chi gongola è il campionato francese, da anni ormai piegato al dominio dei petrodollari del Paris Saint Germain: la Champions a cinque stelle rappresenterebbe una via di uscita dalla crisi tecnica che attanaglia il torneo transalpino.
Un disegno politico ed economico che punta ad abbattere l’ultimo ponte che lega il calcio di oggi a quello del passato: l’imponderabile. Perché se il calcio è cambiato, il pallone è rimasto lo stesso. Diceva Osvaldo Soriano: «Il calcio ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce». E noi non vorremmo mai conoscerle.