Michele Dalai, giornalista e autore televisivo e radiofonico oltre che scrittore, è da sempre controcorrente in quello che pubblica. Aveva scritto un piccolo e divertente pamphlet intitolato “Contro il tiqui-taca – Come ho imparato a detestare il Barcellona”, negli anni in cui sembrava che la più sublime vetta del calcio giocato fosse stata raggiunta quando una squadra aveva cominciato a condurre le partite facendo passare la palla tra i propri giocatori per un’ottantina di minuti. Poi ha condotto su Radio2 la trasmissione radiofonica “Ettore”, nome scelto proprio per rimandare a un “Eroe troiano non dopato, a differenza di Achille, il cui nome sta bene su tutti, perché di tutti incarna vizi e virtù”, come ha dichiarato lo stesso Dalai.
Coerentemente con questa impostazione, Michele Dalai ha pubblicato con Mondadori “La lentezza della luce”, con la stessa vena controcorrente e anti-retorica che lo contraddistingue nella sua produzione creativa. Si tratta di una raccolta di racconti, il cui filo rosso è lo sport. Non si tratta però dello sport di successi, vittorie, perfezione stilistica e tecnica su cui generalmente si versano fiumi di inchiostro e si registrano ore di trasmissioni; bensì uno sport ordinario (potremmo dire: quotidiano), che si intreccia con la normale vita di tutti i giorni. L’autore prende in prestito gli aneddoti del proprio vissuto, ma il protagonista potrebbe essere ciascun lettore, purché sia atleta dilettante e non professionista, e che incastri lo sport come una delle passioni e degli hobby da coltivare nei ritagli di tempo, incastonato nei problemi e nelle storture della propria vita ordinaria e normale.
La quotidianità degli sportivi per passione, secondo l’autore, non è realmente ispirata da chi ce l’ha fatta, da chi ha corso più veloce di tutti oppure è in grado di controllare la palla meglio di tutti o ha concluso imbattuto un torneo. Piuttosto, la sua umana limitatezza e imperfezione è rinfrancata da quelli che definiremmo piuttosto “perdenti”, da chi non ce l’ha fatta, da chi non ha avuto il supporto del talento a sostenere il suo impegno, da chi non ha retto nel momento decisivo dell’incontro. Il calcio, la boxe, il tennis, il basket: eclettismo della passione sportiva dell’autore gli permette di spaziare sui più diversi campi da gioco. Ad accompagnarlo ci saranno Zola Budd, che perse la più importante gara della sua carriera per una crisi di pianto; l’Aurora Desio, gloriosa squadra di basket che chiuse la stagione senza vincere nemmeno un match; l’Italia che perse ai rigori un mondiale contro il Brasile dall’altra parte del Mondo; Peter, barista o portalettere ceco, che da sempre Nedved mette nella sua Top 11 calcistica accanto a Ibrahimovic e al posto di Del Piero.
La tesi che Michele Dalai dichiara di sostenere nel suo libro è, in sintesi: “Ci vuole talento anche nel non avere talento”. Tutti i grandi sportivi citati, proprio perché perdenti, sono intimamente connessi come in una fratellanza a tutti gli sportivi amatoriali. Sono uniti dal dolore e dalla frustrazione della sconfitta, dall’irrimediabile goffaggine del gesto tecnico, da una insuperabile carenza di talento. Ma sono legati anche dalla consapevolezza che debba essere nella sconfitta – e non nella vittoria – il luogo dove ricercare nuovi stimoli, nuovi punti di partenza sui quali appoggiarsi per un ulteriore salto di qualità, per dare un senso a un altro giorno di allenamento e impegno, per spingere a perfezionarsi.
D’altra parte, non è questa una lezione anche per la vita?