Intervista al Commando Ultrà Curva Nord - estratto da Fuori Gioco n.6.
Se la sottocultura ultras ha rappresentato un momento di straordinario protagonismo intergenerazionale, non di rado le sue dinamiche hanno contribuito a definire in particolare l’immaginario collettivo giovanile. Il caso di Lecce è emblematico, con la nascita del primo gruppo organizzato a fare da catalizzatore per uno svecchiamento della mentalità cittadina e una ripresa di processi aggregativi alternativi lontani, però, dalle costrizioni della politica militante i cui strascichi si facevano pur sempre ancora sentire all’inizio degli anni Ottanta […] Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Pino Milli, fondatore del Commando Ultrà Curva Nord e figura di riferimento della prima generazione di ragazzi di stadio salentini.
[…] Il tuo accenno alla connotazione sociale dei fondatori del gruppo è piuttosto interessante: in molti casi i gruppi ultras della prima generazione provenivano dai quartieri popolari ed entravano in aperta contrapposizione con le rispettive città proprio per il loro temperamento anti-borghese. Devo dedurre che il vostro rapporto con Lecce e i Leccesi fosse diverso.
Lecce in quegli anni era una città conservatrice nell’anima con malcelate velleità aristocratiche. Il CUCN, quantomeno da un punto di vista politico, rappresentava una anomalia in quanto tre ragazzi su quattro del nucleo fondatore erano apertamente di sinistra anche se è importante sottolineare che l’aspetto ideologico era stato fin da subito messo al bando e rimaneva fuori da ogni dinamica legata al gruppo e alla curva. Se però parliamo dell’impatto avuto sulla città, bisogna riconoscere che siamo stati la scintilla che ha innescato il fermento giovanile in un contesto fino ad allora dominato dal piattume più assoluto.
Abbiamo rotto la patina di conformi smo che ci opprimeva e siamo diventati un polo di aggregazione alternativa che è andato ben al di là del calcio per contaminare ogni aspetto della vita sociale. Questo ha fatto sì che anche la condizione “privilegiata” dei fondatori venisse col tempo “annacquata” e dietro il nostro striscione si potesse trovare davvero di tutto. Pescare trasversalmente alle classi fece anche in modo che la città stessa ci vedesse con grande simpatia poiché tutti – se non attivi in prima persona – avevano un fratello, un cugino o uno zio che frequentava la curva.
Lo si vedeva anche a livello di adozione di un certo immaginario: tutte le auto e tutti i motorini portavano i nostri adesivi. Persino con le forze dell’ordine i rapporti erano tutto sommato accettabili. Gli unici problemi paradossalmente li avevamo con la dirigenza dell’U.S. Lecce di cui non condividevamo filosofia e prassi. A differenza di oggi non avevamo problemi a coltivare amicizie con i calciatori con cui ci si frequentava abitualmente anche fuori dall’ambito sportivo e che in qualche caso divennero proprio amici nostri.
[…] A proposito di ricambio generazionale, come è stato vissuto il passaggio di testimone agli Ultrà Lecce che hanno mostrato una attitudine almeno apparentemente più aspra e spigolosa rispetto a quella della vostra generazione? Avete mantenuto una presenza anche fisica in curva che garantisse una sorta di continuità storica oppure il cambio di leadership è stato totale?
Quando nel 1996 ha preso vita l’esperienza degli Ultrà Lecce noi eravamo già ufficialmente sciolti, ma mantenevamo una presenza attiva nel mondo ultras cittadino attraverso la sigla “1981”. La presa di potere è avvenuta in maniera drastica strappando lo striscione della Gioventù che per alcuni anni aveva retto le redini della curva e già questo lascia intuire come la volontà del nuovo zoccolo duro fosse quella di dare un taglio netto con il passato. In effetti è inutile negare che se a livello personale i rapporti sono tutto sommato accettabili, non sussiste però nemmeno una forma particolare di rispetto nei confronti della “vecchia guardia” come magari è comune trovare in altre piazze.
Le differenze nel modo di intendere la vita di stadio sono troppo evidenti, così come anche la visione esistenziale dei singoli membri si differenzia molto dalla nostra: fin dal principio il loro gruppo ha avuto una indole libertaria, anarchica, multietnica che pur senza rendersi palese si è inevitabilmente riflessa in una linea comportamentale molto rigorosa: rifiuto di ogni rapporto con la stampa, con le forze dell’ordine, con la società, con i giocatori e rifiuto di ogni forma di contributo esterno. Noi vivevamo la curva in maniera molto più scanzonata e alla base c’era la passione per la squadra.
Molti di loro probabilmente non sanno nemmeno chi è il secondo portiere… In sostanza identificano in altri aspetti il nocciolo dell’essere ultras. Al netto di questo, gli va dato atto di aver rotto gli schemi e aver introdotto uno stile inedito non solo qui a Lecce, ma oserei dire in Italia. Non mi ricordo chissà quanti gruppi così inquadrati, coerenti e intransigenti negli anni Novanta. Pensa che a differenza nostra non hanno mai nemmeno voluto avere una sede. La loro sede è la strada.
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[…] Dalle tue parole pare emergere una opinione non troppo lusinghiera del mondo ultras attuale. Per chiudere questa chiacchierata, dove credi stia andando secondo te la più importante sottocultura italiana?
Il discorso è piuttosto complesso. Come dicevo poc’anzi, io e i miei amici siamo entrati in curva soprattutto perché cercavamo una partecipazione attiva alla partita e ritenevamo lo stadio uno spazio collettivo di aggregazione dove stare bene in compagnia. Oggi la prospettiva si è ribaltata e domina una visione cupa di militarismo estremo che privilegia una dimensione di conflitto. Ma in queste analisi non bisogna dimenticare un dato secondo me essenziale: che gli ultras non sono nati per caso. Sono nati perché qualcuno lo ha permesso, convinto che questo tipo di movimento potesse rappresentare la valvola di sfogo delle piazze che come terreno di scontro ideologico e militare erano ormai fuori controllo.
In sostanza sono convinto che lo Stato ci abbia imbeccato, incoraggiato e foraggiato fino a quando il giocattolo non gli è sfuggito di mano ed è diventato a suo volta oggetto di repressione. Negli anni Settanta, infatti, non è che il livello di violenza in curva fosse minore rispetto ad oggi, ma la differenza sta nel fatto che all’epoca era tutto più spontaneo (scontri inclusi) mentre oggi esiste una pianificazione capillare e la dinamica del “calore e colore” troppo spesso non è più in cima alle priorità di un gruppo. È bene sottolineare, però, che questa deriva sicuramente nefasta non è interamente colpa di un mondo ultras avvitatosi su sé stesso.
Il punto di svolta, secondo me, va fatto risalire alle scelte politiche del governo Amato e in particolare ai decreti del 2007 che cercarono di scimmiottare le iniziative intraprese dalla Thatcher nel Regno Unito. Entrò in gioco una prospettiva di totale repressione che per certi versi abdicava dall’obbligo di gestire l’ordine pubblico per concentrarsi solo su sanzioni successive (arresti, DASPO…) che troppo spesso falcidiavano le persone più in vista. Ecco allora perché sono saltate tutte le regole, i codici di comportamento e ha iniziato a regnare quella sorta di anarchia che, purtroppo, ci portiamo appresso ancora oggi. Un esame di coscienza se lo dovrebbero fare in molti…
L’intervista integrale, realizzata da Mauro Bonvicini, la potete trovare nel numero 6 di Fuori Gioco, ordinabile qui / In copertina lo spareggio Cesena-Lecce del 1987 a Pescara.
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