Calcio
29 Maggio 2017

L'arte di perdere

Quando la sconfitta diventa un’arte: maggio 1967, una primavera molto nera e poco azzurra.

Mezzo secolo. Il tempo trascorso da quella primavera del 1967. Il campionato di calcio di serie A sta volgendo al termine, mancano solo poche partite alla fine, e il copione è quello degli ultimi anni: come da pronostico, c’è una squadra sola al comando, la Grande Inter euro-mondiale, che sembra destinata a fregiarsi dell’undicesimo titolo di campione d’Italia e che si appresta a disputare la terza finale di Coppa dei Campioni in quattro anni. Tutto sembra convergere verso una storica tripletta – c’è anche la Coppa Italia, in palio – e solo pochi sono disposti a scommettere su un esito diverso: troppo forte quel gruppo, quasi imbattibile la sua difesa. Eppure, in una settimana accade quello che non ci si aspetta, perché nel calcio, come nella vita, a volte accade l’inimmaginabile. E nella primavera del 1967, questo accadde: l’inimmaginabile.

 

Ma che Italia è, quella che saluta la primavera di mezzo secolo fa? Il terzo governo Moro è ancora scosso dalle rivelazioni del settimanale L’Espresso sull’attività del Sifar, il Servizio segreto militare, che ha schedato e spiato migliaia di persone nel corso degli ultimi anni e, mentre l’enciclica di Papa Paolo VI Populorum Progressio denuncia le storture dell’economia capitalista, la Camera discute la proposta di legge Loris Fortuna sul divorzio. Nel mondo dello spettacolo è ancora fresco il ricordo del tragico suicidio di Luigi Tenco, avvenuto nel corso della diciassettesima edizione del Festival di Sanremo e, il 15 aprile, un altro lutto funesta il paese: nella sua casa di Roma, a 69 anni, muore stroncato da un infarto il principe Antonio De Curtis, in arte Totò. 

 

La televisione, rigorosamente in bianco e nero, è il passatempo preferito dagli italiani. Milioni di persone hanno assistito allo sceneggiato I Promessi Sposi di Sandro Bolchi, con Nino Castelnuovo e Paola Pitagora nelle vesti di Renzo e Lucia, ma non possono gioire ammirando in diretta l’impresa di Nino Benvenuti che, il 17 aprile, conquista la corona mondiale dei pesi medi battendo a New York Emile Griffith. Il Governo impedisce infatti la telecronaca notturna del match per timore di assenteismi sul posto di lavoro, e i nostri connazionali si devono accontentare della radiocronaca di Paolo Valenti.

 

La storica vittoria di Nino benvenuti al MSG

 

In maggio Blow Up di Michelangelo Antonioni vince il XX Festival di Cannes, mentre, alla radio, sta spopolando un nuovo programma, l’Hit Parade di Lelio Luttazzi. Nata in gennaio, in quei giorni di primavera il primo posto in classifica è occupato da Cuore matto di Little Tony, anche se è un altro il motivo più gettonato nei juke-box; è una canzone cantata dei Rokes, il gruppo inglese di Shel Shapiro, e ha un titolo strano: Bisogna saper perdere. Ecco, il mio racconto parte da qui, da quel ritornello dei Rokes, un refrain che è risuonato nelle orecchie di un bambino di otto anni per tutta la lunga estate di mezzo secolo fa, e che si è trasformato nel sound-track di una vita.

 

Una vita da tifoso dell’Inter
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Per una strana coincidenza, il campionato di serie A di mezzo secolo fa si disputò nelle stesse date di quello attuale. L’Italia calcistica era ancora sotto shock per la vergogna di Middlesbrough, piccola cittadina dell’Inghilterra nord orientale che imparammo a conoscere perché teatro della clamorosa sconfitta della nazionale da parte di undici dilettanti della Corea del Nord, che si erano divertiti a umiliare i nostri strapagati e viziati professionisti eliminandoli dal Campionato del Mondo disputato in terra inglese. A seguito di quella disfatta, con una decisione improvvisa, la Federazione chiuse le frontiere ai calciatori stranieri, impedendo all’Inter di ratificare i due precontratti già firmati con Eusebio e Beckenbauer. Ai nastri di partenza la squadra di Angelo Moratti si presentò comunque da favorita d’obbligo. I neroazzurri – guidati in panchina dal “Mago” Helenio Herrera – stavano dominando la scena e, negli ultimi quattro anni, si erano già aggiudicati tre scudetti (il quarto lo avevano perso nello spareggio col Bologna del giugno 1964) due Coppe dei Campioni e altrettante Coppe Intercontinentali.

 

Se il Bologna di Bernardini era la rivale più accreditata, il Napoli di Pesaola, il Milan di Silvestri e la Fiorentina “je je dei giovani guidata da Chiappella sembravano destinate a contendere ai felsinei il ruolo di damigella d’onore, mentre, né la Juventus di Heriberto Herrera, né il Cagliari di Scopigno e del giovane bomber Gigi Riva, potevano ambire a recitare parti che non fossero quelle di semplici comparse. L’andamento del torneo confermò le previsioni della vigilia ma con una sorpresa: sulla scia dell’Internazionale, che fece corsa solitaria in vetta alla classifica, si pose la Juventus che, fra lo stupore generale, rimase nella scia dei neroazzurri fino in primavera. Nel corso del torneo la gramigna della polemica attecchì non poco, e i quotidiani sportivi rivali, La Gazzetta dello Sport e Tuttosport, scesero simbolicamente in campo lamentando torti veri e presunti subiti dalle due squadre.

 

Neroazzurri e bianconeri fecero corsa solitaria distaccati di pochi punti finché, il 30 aprile, accadde che la Juventus venne battuta a Milano dal Milan, mentre la squadra di Moratti pareggiò in casa con la Lazio; a quel punto, a quattro giornate dalla fine, la classifica recitava: Internazionale punti 46, Juventus punti 42. Tutto sembrava ormai deciso, e nessuno osava immaginare un finale diverso. Ma esaminiamo più da vicino le due contendenti, rappresentanti della Milano lombarda e del “vecchio” Piemonte, divise da una storica rivalità per la quale, in quei giorni, Gianni Brera coniò la locuzione derby d’Italia.

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L’internazionale della stagione 66-67

 

Sarti, Burgnich, Facchetti…

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In quegli anni la formazione dell’Inter era diventato uno scioglilingua e, per i bambini di allora, quei nomi recitati come un rosario rappresentavano felicità o incubo a seconda di dove virava la fede: se verso la Milano, sponda interista, oppure verso altre destinazioni del Belpaese. Fu una monarchia assoluta, quella imposta da Angelo Moratti. Una monarchia nata da una sorta di “golpe” nei confronti della diarchia Milan/Juventus, le squadre dei Rizzoli e degli Agnelli che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta – con la sola eccezione della Fiorentina nel torneo 1955/56 – si divisero equamente scudetti e onori. Con tutti i distinguo del caso, un po’ quello che accadrà quarant’anni dopo con il figlio minore di Angelo Moratti, Massimo.

 

Gestita con sagacia da Italo Allodi, un giovane e intraprendente manager proveniente dal Mantova, e guidata con mano ferma da Helenio Herrera, l’Inter aveva trovato sul terreno di gioco una di quelle rare alchimie che, quando riescono, garantiscono successi a catena. Nelle fila neroazzurre c’era il capitano ideale, Armando Picchi; c’era il leader ideale, lo spagnolo Luisito Suarez, fuoriclasse di spessore europeo; c’erano due giovani provenienti dal vivaio che diventarono autentiche colonne della formazione, nonché due fra i più forti giocatori dell’epoca, Sandrino Mazzola e Giacinto Facchetti; intorno a loro, ottimi giocatori e seri professionisti: dal portiere Giuliano Sarti, ai rocciosi Aristide Guarneri e Tarcisio Burgnich, colonne di una difesa impenetrabile, dal mediano Gianfranco Bedin agli attaccanti Jair Da Costa e Angelo Domenghini.

Giacinto Facchetti, stagione ’66-67, vera e propria leggenda neroazzurra

Insomma, un complesso quadrato, cinico, consapevole del proprio valore, un mix ben riuscito di forza e tecnica arricchito da quell’altro elemento che, quando è presente, rende il tutto un insieme perfetto: l’estro, l’imprevedibilità. E a questo pensava il piede sinistro di Dio, al secolo Mario Corso. Sì perché era da Mandrake, altro soprannome del giocatore veronese, che veniva quel tocco di magia capace di trasformare qualsiasi momento di una partita in un’esperienza difficile da dimenticare. Calzettoni arrotolati alle caviglie, portava il numero undici ma non era un’ala, non era nemmeno una mezzala, o un regista: era semplicemente un genio eccentrico che poteva caracollare in modo apatico per il campo per poi accendersi e, in pochi secondi, decidere di incendiare il match con una serie di dribbling funambolici, con traiettorie di passaggi che vedeva solo lui, oppure con una delle sue celebri punizioni “a foglia morta”.

 

Furono tanti i momenti di gloria vissuti dai tifosi interisti in quegli anni. Semplicità di schemi, prontezza nel tamponare le offensive degli avversari e nel rovesciare immediatamente il fronte d’attacco con micidiali verticalizzazioni: fu una sorta di guerriglia applicata al calcio, quella che gli uomini di Helenio Herrera portarono in dote sui campi di mezza Europa. Con pochi fronzoli, la palla veniva riconquistata dai difensori e appoggiata a Suarez che, prontamente, serviva con lanci di lunga gittata il veloce Jair, l’allora incontenibile Mazzola, oppure l’arrembante Facchetti. Non era un gioco spettacolare, quello dei neroazzurri, ma, nelle giornate migliori, raggiungeva vertici di efficacia incredibili.

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Helenio Herrera, uno degli allenatori più efficaci della storia del calcio

 

La classe operaia va in paradiso

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Anticipando di quattro anni il titolo del famoso film di Elio Pietri, in quel campionato la Juventus dimostrò che l’impegno, il sacrificio e la serietà d’intenti potevano condurre un gruppo di giocatori “normali” nel paradiso del calcio. Il ciclo heribertiano, iniziato tre anni prima, ebbe il suo coronamento con il tredicesimo scudetto della storia bianconera, un titolo conquistato con la caparbietà di chi, pur sapendo di non essere il più forte, si batte con furore leonino per dimostrare che sì, è possibile vincere anche con qualità che non siano solo la classe e la tecnica individuale. Mai come in quella stagione, sul terreno di gioco, trovò conferma la teoria della psicologia della Gestalt per cui il tutto è maggiore della somma delle singole parti. La Juventus non fu la squadra più forte, ma vinse, e vinse grazie a uomini come il portiere Anzolin, i difensori Castano, Bercellino, Gori e Salvadore, i centrocampisti Leoncini, Chinesinho e Del Sol, e gli attaccanti De Paoli, Zigoni, Menichelli e Favalli. Come potete capire, non certo l’aristocrazia del calcio.

 

Ma se ci fu un giocatore che si prestò a simboleggiare in modo plastico le virtù morali della compagine juventina, questi fu lo spagnolo Del Sol. Cresciuto nel grande Real Madrid di Di Stefano e Puskas, Del Sol, l’elemento di maggior classe nella rosa insieme al piccolo brasiliano Sidney Cunha, detto Chinesinho, disputò un campionato esemplare, correndo e sgobbando come un matto e ponendo sempre la sua tecnica al servizio dei compagni. Serio, silenzioso, lo si vedeva correre ingobbito in ogni parte del campo per dar man forte al compagno in difficoltà con l’umiltà del gregario e poi, pochi secondi dopo, proporre gioco con l’autorità del leader a giocatori che si smarcavano secondo schemi ripetuti centinaia di volte in allenamento. In quell’anno, Luis Del Sol fu l’esempio paradigmatico di come l’esigenza del collettivo debba anteporsi a qualsiasi brama di gloria personale. Alla fine vinse il duello a distanza con l’altro Luis, il più famoso Suarez, lui, Del Sol, già abituato a cantare e portare la croce in un Real Madrid pieno di stelle al tramonto.

 

HH 1 e HH 2: il Mago e il Ginnasiarca

 

Helenio e Heriberto Herrera furono gli allenatori condottieri delle due squadre rivali. Per distinguerli, i giornali dell’epoca coniarono gli acronimi HH 1 e HH 2. Entrambi sudamericani, uno argentino l’altro paraguaiano, di umili origini e con un modesto passato da calciatore, i due erano tipi originali e, a loro modo, eccentrici. Il Mago Helenio, un ex infermiere diventato maestro di ginnastica, allenò in Francia prima di trasferirsi in Spagna e avere fortuna conquistando quattro titoli equamente divisi fra Atletico Madrid e Barcellona. Strappato ai catalani a peso d’oro, Helenio fallì nelle prime due stagioni per poi assestarsi nella terza convertendosi a un saggio catenaccio.

 

Di calcio tatticamente impostato non sapeva molto, ma faceva correre, era rigoroso negli allenamenti e nella disciplina (specie a tavola) e preparava i giocatori perché resistessero alla fatica sul campo. Il suo taca la bala, sorta di pressing ante litteram, era proverbiale, come pure gli slogan motivazionali affissi negli spogliatoi di Appiano Gentile, una delle sue trovate che, insieme ai proclami e alle profezie, gli valsero il soprannominato di “Mago”. Strappò a Moratti ingaggi faraonici e premi doppi per le vittorie che depositava nei conti delle banche della vicina Svizzera. Tutte ragioni, queste, che spinsero molti ad affermare che con lui il mestiere di allenatore fosse entrato definitivamente in una dimensione professionistica.

 

Tornando a noi dopo le prime due stagioni buttate al vento per crolli fisici al fotofinish, arretrò un terzino, Picchi, ponendolo a protezione dello stopper, come si usava fare col metodo, e fece suo un modulo italiano già applicato con successo da Foni dieci anni prima proprio all’Inter, il famigerato Catenaccio, spacciandolo per una sua trovata. Rimasero celebri le sue esternazioni del lunedì, quando convocava la stampa alla Pinetina per monologhi che, spesso, assumevano toni vagamente surreali. In quell’annata di mezzo secolo fa H.H.1 rivestì un doppio ruolo: in qualità di Commissario Tecnico, affiancò infatti Ferruccio Valcareggi alla guida della nazionale italiana, impegnata nelle qualificazioni al Campionato Europeo che il nostro paese ospitò nel 1968.

“Sarà un finale di torneo terribile e drammatico”.

Con questa profezia, il Ginnasiarca Heriberto congedò i giornalisti al termine di una delle ultime partite di quel campionato, usurpando, di fatto, al rivale il titolo di mago. Dopo aver allenato senza infamia e senza lode in Spagna, Heriberto venne ingaggiato dalla famiglia Agnelli nell’estate del 1964 e portò con sé il suo credo, il movimiento. Con quel termine anticipava sul terreno di gioco concetti che entreranno nell’uso corrente anni dopo. Il “Ginnasiarca”, fanatico della preparazione fisica, pretendeva infatti sovrapposizioni, scambi di ruolo, corsa senza palla e smarcamenti continui. Maniaco della disciplina, riservatissimo, esigente con gli altri e con se stesso, predicava un calcio moderno con metodi antichi. Era un duro, un “sergente di ferro”, come si diceva a quei tempi. Non sopportava le star e liquidò Omar Sivori con grande dispetto dei tifosi e degli Agnelli. Faceva controllare i giocatori da persone di fiducia e pretendeva la ritirata alle 22.00 in punto, guai a sgarrare. Lui stesso conduceva un’esistenza monacale, al riparo da distrazioni e vizi. Un giorno Gianni Agnelli disse addirittura di lui:

“Ha fatto della Juve dal gioco aristocratico una squadra socialdemocratica”.

E aveva ragione, l’Avvocato, perché fu questa la piccola grande rivoluzione dell’allenatore paraguaiano: trasformare tante individualità in un gruppo coeso, umile, operaio, dedito al mutuo soccorso. Nel panorama del calcio nostrano la sua “Giuve” fu una meteora, ma quel breve passaggio luminoso annunciò una rivoluzione, rivoluzione che doveva avere negli anni Settanta i suoi Robespierre e i suoi Saint-Just nell’Ajax di Cruijff e nella Dinamo Kiev di Lobanovs’kyj (al netto di qualsiasi considerazione di natura chimica..) e, per rimanere nei confini nazionali, nella Lazio di Tommaso Maestrelli e nel Torino di Gigi Radice.

Antonio Martínez Maciá e (sulla destra) Heriberto Herrera

 

Perdere da Inter, ovvero l’arte della sconfitta

 

Ricordate la classifica a quattro giornate dalla fine? Internazionale punti 46, Juventus 42. Bene, da quel momento la squadra meneghina non riuscì più a vincere una partita e la Juventus, approfittando anche della vittoria nello scontro diretto del 7 maggio, si portò a un solo punto di distacco. Domenica 21 maggio, a una giornata dalla conclusione, la classifica recitava: Internazionale punti 47, Juventus punti 46. Il giovedì successivo i neroazzurri avrebbero disputato la finale di Coppa dei Campioni contro il Celtic, la squadra cattolica di Glasgow nonché prima compagine britannica a raggiungere la finale, ragione che portò al rinvio dell’ultima giornata di campionato a giovedì 1 giugno, quando si sarebbero disputate queste due partite: Mantova – Internazionale e Juventus – Lazio. E, in sette giorni, dal 25 maggio al 1 giugno, l’Inter perse tutto, prima sconfitta dal Celtic di Glasgow nella finale disputata in un pomeriggio di caldo afoso a Lisbona, poi superata in campionato al fotofinish dai bianconeri, dopo essere stata inopinatamente sconfitta a Mantova per una clamorosa papera del suo portiere su un innocuo cross dell’ex Di Giacomo. Alcuni giorni dopo arrivò anche l’eliminazione nella semifinale della Coppa Italia a opera del Padova.

 

Ci sono sconfitte e sconfitte, nel calcio, come nella vita. Alcune diventano quasi una forma d’arte, débâcle così eclatanti che il congedo dello sconfitto dall’agone assume una forma estetica che lo rende in qualche modo indimenticabile. Un po’ come quando l’eroe invincibile viene battuto a causa di una scivolata, come in quella lontana primavera, o come quando vedi un traguardo agognato da anni che poi ti sfugge all’ultimo metro, come accadrà il 5 maggio di trentacinque anni dopo.

L’incubo di oltre trent’anni dopo

Diamine, stiamo parlando della pazza Inter, dopotutto! Ma, a pensarci bene, in quella primavera del 1967 a uscire di scena non fu soltanto una squadra con i colori nerazzurri. Con quella squadra ci salutò anche un’epoca irripetibile: da lì in poi, nel calcio, come nella vita, saranno altri i parametri di riferimento. Meno spazio all’individualismo anarchico, in favore di un collettivismo solidale, meno tempo per la contemplazione sognante, a favore del movimentismo frenetico. Conservo immagine vaghe di quel 1° giugno di mezzo secolo fa. Era di giovedì, e le partite iniziavano a un orario inusuale: le 18,00. Ricordo un gran caldo, il transistor che trasmetteva il secondo tempo di Mantova – Inter, e la mia incredulità, perché i miei eroi stavano perdendo, il tempo trascorreva, e io mi dicevo che non poteva essere vero, ma lo era.

 

Poi la fine, l’annuncio della Juventus campione d’Italia, dopo la vittoria sulla Lazio, e io a pensare che forse era solo un brutto sogno, solo un brutto sogno, e la sera le immagini televisive avrebbero rimesso tutto a posto, non c’era motivo di dubitarne. Ma poi anche le immagini avallarono quella che mi sembrava una cospirazione, la cospirazione di una realtà che non potevo accettare, e vidi Sarti che sbatteva la testa contro il palo, dopo quella papera clamorosa che costò lo scudetto ai neroazzurri. Ecco, tutto quello che mi è rimasto di quella partita è un’istantanea mentale di un uomo in maglia e pantaloncini neri che, affranto, batte la testa contro il palo, inutilmente confortato dai compagni, un’istantanea che si impresse per sempre nell’album della mia memoria.

“Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere come vuoi e quando vuoi…”.

Lo confesso: non sono mai riuscito a odiare i Rokes. Certo, ogni volta che ripenso a quelle note, l’effetto madaleine suscitato nel sottoscritto è tutt’altro che dolce, ma che volete farci? Forse sarà perché, oltre ai tormenti di un bambino innamorato dei suoi miti, quelle note hanno il potere di evocare altri momenti. Quelli dei ghiaccioli colorati che costavano trenta lire, per esempio, o delle partite giocate nei prati di periferia fino a quando veniva buio, col portiere volante e dove ogni tre corner guadagnavi un rigore; e della tv dei ragazzi, e dei caroselli e poi a letto; e di tutte le gare di figurine, e delle strisce dei fumetti, anche quelli un po’ scollacciarti, che sbirciavi di nascosto all’edicola. Ricordi di un mondo che non esiste più, e che eppure è esistito; e forse, mentre scrivo queste righe, non cerco solo di ricordare, ma cerco ancora idealmente di esserci, in quel mondo. “Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere…”.

 

Tutto è partito da qui, da questo ritornello, e ora la mia storia sta per terminare. Fu una notte afosa e insonne quella che seguì il pomeriggio del 1 giugno 1967, una notte in cui un bambino di otto anni comprese per la prima volta gli effetti collaterali della sua passione, intuendo ciò che quei colori così misteriosi avrebbero rappresentato per il suo futuro: una costante fonte di sofferenza, quasi una sottile forma di masochismo. Ma ormai la frittata era fatta e non importava, perché cinquant’anni dopo, ora, quell’ex bambino ha finalmente compreso ciò che la fede per l’Inter ha significato per lui: un ottimo allenamento alla vita.


 

Risultati di Internazionale e Juventus nelle ultime quattro giornate del campionato 1966/67:

 

7 maggio: Juventus v Internazionale 1-0;

Internazionale pt. 46, Juventus 44
14 maggio: Internazionale v Napoli 1-1; Mantova v Juventus 1-1;

Internazionale pt 47, Juventus 45
21 maggio : Internazionale v Fiorentina 1-1; Lanerossi Vicenza v Juventus 0-1;

Internazionale pt 48, Juventus 47
1 giugno: Mantova v Internazionale 1-0; Juventus v Lazio 2-1;

Juventus pt 49, Internazionale 48

Formazione tipo Internazionale:
Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Domenghini (Cappellini), Suarez, Corso.

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Formazione tipo Juventus:
Anzolin, Gori, Bercellino, Castano, Salvadore, Leoncini, Cinesinho, Del Sol, Zigoni (Favalli), De Paoli, Menichelli.

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