Quando il derby aveva un sapore tipicamente meneghino.
«Baùscia e casciavìt, filàr de Barbacarlo…la pènna l’è on’ortiga, la pènna l’è on mestée…» canta Claudio Sanfilippo in una canzone dedicata a Gianni Brera, in immancabile dialettolumbàrd. Ma chi sono i “baùscia”? E chi i “casciavìt”? Per spiegarlo, è necessario fare qualche passo indietro etornare ai primi anni delle due società meneghine, durante i quali il Naviglio non divideva soltanto le due squadre di una stessa città, ma contrapponeva anche le due tifoserie, ben radicate in contesti sociali differenti.
I termini vennero infatti coniati negli anni Venti del Novecento, periodo in cui le differenze di classe erano molto marcate e sentite. Ecco quindi che i tifosi rossoneri vennero bollati come “casciavìt”, in dialetto milanese “cacciaviti”: stiamo parlando del simbolo per eccellenza del lavoro operaio e manuale che condiva le giornate del proletariato meneghino, grande bacino della tifoseria milanista. Il “casciavìt” viveva in periferia e a volte era uno dei primi emigrati dal Mezzogiorno. Certamente, in ogni caso, era escluso dal lusso della vita del centro.
Il termine “baùscia” invece, che in dialetto significa letteralmente “saliva” ma che metaforicamente si traduce con “gradasso”, e che sostituiva quello che nello stesso dialetto oggi può essere ricondotto a “ganassa”, accompagna da sempre il tifo nerazzurro. Abitava quasi sempre in centro, partecipava con gusto alla vita della Milano bene e spesso si recava allo stadio in giacca e cravatta. È questo il vanitoso identikit che raffigurava il classico tifoso interista dell’epoca. In più c’era il fattore della nascita dell’Inter nel 1908, avvenuta da una scissione di alcuni soci del Milan in polemica per il divieto di tesserare ulteriori stranieri nella squadra.
Lo stesso nome della nuova società, l’Internazionale, era volto all’ostentazione di un tono più alto della neonata compagine, i cui membri, nello stesso motto di nascita, si autocelebravano come «fratelli del mondo». Due strati sociali esattamente contrapposti che contribuivano ancor di più al mito della rivalità cittadina, ma che rappresentavano un corpo unico dentro le mura di San Siro, fiore all’occhiello della Milano sportiva. Quando ancora non esistevano tribuna autorità e terzo anello, non era raro trovare un imprenditore seduto accanto al proprio operaio, o un capo d’azienda vicino al suo impiegato.
Con il passare degli anniquesta contrapposizione è andata via via scomparendo. Da una parte il boom economico degli anni Ottanta, decennio di ottimismo e grandi speranze, ridusse – quantomeno in apparenza – il divario sociale, dall’altra l’irrefrenabile sviluppo economico delle strutture portanti di questo sport distaccò le società dalle proprie origini. Tuttavia anche negli ultimi anni non sono mancate orgogliose rivendicazioni di tali soprannomi da parte delle tifoserie, le quali non di rado hanno ostentato questa appartenenza nelle tradizionali coreografie. Rossoneri da una parte, nerazzurri dall’altra. Chi orgogliosamente “casciavìt”, chi con fierezza “baùscia”. Al campo, e agli spalti, l’ultima parola.
Facciamo un viaggio alla scoperta dello spirito che ha animato le origini del nostro calcio, al riparo dalla compostezza e dal conformismo dell’attuale Serie A.