L'addio al Milan in un silenzio dal rumore assordante.
Ce l’abbiamo ancora ben impressa nella mente quell’immagine: Giacomo Bonaventura inginocchiato in mezzo al prato verde di San Siro, solo, in lacrime per l’ultimo ballo in maglia rossonera. Ci siamo emozionati con quel fotogramma tutti, nessuno escluso, tifosi milanisti e amanti del calcio. Perché la commozione di un giocatore per bene come Bonaventura, qualunque sia la fede calcistica, non passa inosservata.
Ancor di più quando il commiato avviene nel silenzio di uno stadio deserto, nella Scala del Calcio messa a nudo da un killer invisibile. Quell’inchino sulla tre-quarti, zona di campo tanto cara a Jack, è un quadro muto dal rumore assordante. Un ossimoro tristemente attuale, metafora di un calcio post Covid zeppo di stranezze, controsensi, contrasti. Proprio come il suo addio al Milan.
Una contraddizione in termini per una società che desidera tornare ai fasti del passato, ma che decide di privarsi di un uomo spogliatoio, esponente sano di un calcio che tanto ci manca. Perché Jack Bonaventura sembra aver attraversato il tempo, sbalzato dagli anni ’80 ai giorni nostri: la professionalità prima di tutto, e poi quella passione cristallina fatta di campo, sudore, lavoro e sacrifici di cui il 5 rossonero era uno straordinario rappresentante.
Un esempio, senza fronzoli, fuori e dentro al campo: il suo essere equilibrato, mai rumoroso, lontano dalle luci della ribalta rappresenta un patrimonio che certamente mancherà al Milan; e anche ai suoi tifosi, che con un’immane onda d’affetto sui social hanno tributato quel calore (seppur virtuale) che Bonaventura avrebbe meritato di ricevere in un San Siro gremito in ogni ordine di posto.
L’affetto d’altronde nacque fin dall’inizio, nell’estate 2014, quando Jack sbarcò a Milano dopo una stagione entusiasmante a Bergamo. I rossoneri riuscirono allora a strapparlo alla concorrenza nelle ultime ore di mercato, pagandolo 7 milioni di euro. Solo 7 milioni di euro, viene da dire con il senno del poi. Perché Bonaventura in maglia rossonera ha dato tanto, tutto, ripagando ampiamente il club per quel piccolo grande investimento.
Fu così fin dalla prima gara, un pirotecnico Parma-Milan 4-5, quello dell’indimenticabile tacco di Jeremy Menez, genio e sregolatezza. Quella sera tutto iniziò con la rete di Bonaventura, genio e regolatezza: alla prima presenza segnò un gol che, a rivederlo oggi, ci racconta l’essenza del giocatore che Milano ha potuto apprezzare. Taglio nello spazio, finta di corpo e diagonale velenoso: tre semplici movimenti, una esecuzione perfetta, senza mai toccare la palla prima di calciare in porta. Un taglio, una finta, un tiro: l’essenziale, in quell’occasione, è stato visibile agli occhi.
Ed è proprio con la sua essenzialità che è entrato tanto nel cuore dei tifosi milanisti quanto nelle grazie degli allenatori, sempre pronti a sfruttare la sua duttilità tattica. D’altronde lo aveva detto lo stesso Bonaventura, qualche anno fa:
“La specializzazione è una deriva sbagliata: ti aiuta ad esplodere, ma poi devi variare, devi migliorare”
Così, da trequartista, l’evoluzione naturale lo ha portato a diventare quella mezz’ala estrosa che il calcio contemporaneo richiede. Dove poi non arrivava con il fisico, lì rimediava con le letture e una straordinaria intelligenza tattica. Creativo e al tempo stesso mobile, pronto a ricevere il pallone dai compagni nelle zone interne ed esterne del campo, lo lavorava, lo ripuliva, inventando poi assistenze: 30 in 184 presenze, che si aggiungono al ricco bottino di 35 reti all’ombra della Madonnina.
Una rete però è stata indubbiamente più pesante delle altre: l’ombra, allora, era quella tanto sospirata per trovare refrigerio nel caldo afoso di Doha, sede della Supercoppa Italiana 2016. Con un pregevole colpo di testa Bonaventura riacciuffò la Juventus, portando il Milan a raggiungere – e poi a vincere – i calci di rigore. Fu quello l’ultimo trofeo della straordinaria epopea berlusconiana di cui Bonaventura, suo malgrado, è stato protagonista solo nella fase calante: al suo arrivo a Milano i pezzi da novanta dell’ultimo scudetto rossonero (leggasi Thiago Silva e Ibrahimovic) si erano già accasati a Parigi da un paio d’anni, e anche le ambizioni del club non erano più quelle di un tempo.
Possiamo dirlo: Bonaventura è stato l’acquisto più giustonel momento – per il giocatore – più sbagliato possibile. Difficoltà societarie, scelte di mercato scellerate, continui cambi di allenatore. Nessuna reale programmazione, nessun progetto a lungo termine. E non serve nemmeno ricordare l’innumerevole sfilza di infortuni, giunti a minare la sua carriera, per capire che il percorso di crescita – sia al Milan che in Nazionale – avrebbe potuto e dovuto essere migliore. In fin dei conti negli ultimi anni, soprattutto a centrocampo, il calcio nostrano non ha brillato di talento: lo spazio per confermarsi e diventare uno dei migliori interpreti della mediana c’era. Eccome se c’era, così come le qualità del giocatore.
Purtroppo la storia è andata diversamente. L’intelligenza tattica e il valore tecnico di Bonaventura non hanno mai trovato terreno fertile: chi ha occhi per il calcio ha potuto apprezzare sprazzi del suo talento, del suo estro, della sua caparbietà. Solo sprazzi, purtroppo. La parte migliore probabilmente è andata perduta anche perché, in casa rossonera, non c’è mai stato nessuno davvero in grado di coltivarla, di esaltarla, di raccoglierla giorno per giorno. Anzi, in un Milan in grande difficoltà di risultati ma ancor prima di gioco, molto spesso è stato proprio Bonaventura ad adattarsi al contesto, e a caricarsi la squadra sulle spalle.
Con Pioli, invece, la scintilla stava per scoccare di nuovo ma sappiamo tutti – purtroppo – come è andata a finire. Perché Bonaventura una conferma in questo Milan l’avrebbe meritata: per la sua affidabilità, per la sua disposizione ad accettare ogni scelta dell’allenatore, positiva o negativa; per il suo valore anche umano, perché il calcio è fatto anche di gruppo e non solo di campo. In rossonero, mai una parola fuori posto, un gesto di stizza, una polemica. Umiltà, professionalità, discrezionesono state le sue armi, insieme all’estro e alla visione di gioco, superiori alla media.
Per tutte queste ragioni ci saremmo aspettati almeno un premio alla normalità per Bonaventura, archetipo del giocatore della porta accanto. Rappresentazione plastica e umana del concetto di sobrietà, in un mondo di influencer e di tormentoni estivi (anche nel calcio). Ormai però è andata così. Probabilmente i reali motivi dell’addio non li conosceremo mai, e in realtà oggi nemmeno ci interessano: una decisione, tanto crudele quanto definitiva, è stata presa. Questo travagliato viaggio dopo sei anni è davvero finito, e il triplice fischio dell’ultima partita in rossonero fa calare il sipario.
Resta così solo il silenzio, e il centro del campo. Davanti agli occhi scorrono le emozioni, i gol, gli assist, gli abbracci, i momenti difficili, i sorrisi. In quel momento gli occhi si riempiono, ed è naturale che scenda una lacrima. Sarebbe stato bello un San Siro pieno per i saluti, che potesse tributare il giusto addio. Per cause di forza maggiore, e per sfortuna ricorrente, non è stato possibile: meglio allora lasciarci con un arrivederci, perché “chi la maglia ha onorato mai verrà dimenticato”. In bocca al lupo Jack, di cuore, da gente semplice. E che il futuro sia migliore.