La storia del più grande giocatore di snooker di tutti i tempi.
Se a 10 anni non esci mai di casa perché hai una passione talmente forte che si può consumare in una cantina in semi oscurità, in cui le uniche luci sono dei pallidi lampadari posizionati su un tavolo lungo e largo ammantato di verde; se gli unici suoni che puoi sentire sono le palline colorate che sbattono fra di loro, che si infrangono sulle sponde gommose di un biliardo o il secco tonfo della pelle che ricopre una buca quando viene colpita da una biglia; e se in tutto questo riesci ad essere felice ed a tuo agio pur non sapendo esattamente che cosa stia succedendo intorno a te, beh, vuol dire che sei predestinato a qualcosa di strabiliante.
Ronald Antonio O’Sullivan, lo snooker in persona
Nato Ronald Antonio O’Sullivan, padre irlandese e madre italiana, se non avesse fatto il giocatore di snooker sarebbe potuto diventare benissimo un attore: non certo per la bellezza, ma per l’emotività che esce dai suoi occhi, la l’espressività dei suoi gesti che nasconde milioni di sentimenti non classificabili e spesso slegati fra di loro. Attore nel senso stretto della parola non lo diventa, ma di certo interpreta una carriera ed una storia di sport che non sfigurerebbero se fossero una sceneggiatura da film. Ha un’infanzia tranquilla, mentre i suoi genitori lavorano tutto il giorno: gestiscono una catena di sexy shop a Soho, Londra.
Trascorre la fanciullezza giocando a snooker a casa da solo e già dalla giovane età di 10 comincia ad allenarsi, anche se oltre al talento si intravede una personalità travagliata nella sua crescita caratteriale. “Sono dannatamente timido! E grazie…quando avevo 10 anni stavo tutto il giorno a giocare a biliardo da solo” ha rivelato Ronnie qualche anno fa, ma questo è solo un lato del suo carattere, e per certi verso il meno sconvolgente. Se fino ad ora non c’è nulla di anormale nella sua vita, il tutto prende una direzione strana, tra il romantico, il tragico e l’epico.
Un giovanissimo Ronnie O’Sullivan col padre
Prima apparizione televisiva a 14 (sic!) anni, con Steve Davis a commentare, il quale intuisce subito l’enorme potenziale del ragazzino: vince il suo match ed al termine dello stesso a bordo biliardo concede la sua prima intervista, in cui appare anche il padre che, con amore patriarcale esemplare, bacia il figlio ed interagisce con il giornalista. In questo veloce scambio di battute traspare un vero legame tra O’Sullivan sr. e jr: Il padre è il primo fan ed estimatore del figlio, oltre che suo allenatore nella giovanissima età. Lo segue con una passione unica, e Ronnie ricambia il tutto con una dedizione allo snooker che è similare solo all’ affetto del figlio verso il padre. Tutto questo ci farà capire cosa sarà per Ronnie il 1992.
È l’anno in cui diventa professionista di snooker: ha 16 anni, è il più giovane di sempre, eppure questo è l’avvenimento meno importante di questa annata. Il padre viene arrestato per omicidio e dovrà scontare una pena di 18 anni. Tutto questo distrugge Ronnie: è vero che si qualifica ai mondiali del 1992 (giusto per ribadirlo, anche in questo caso è il più giovane di sempre), ma questa serie di avvenimenti lo distruggono e lo destabilizzano. Ritrova un po’ di pace e serenità vincendo nel 1993 lo UK Championship contro l’allora inavvicinabile Stephen Hendry. Ronnie dedica la sua vittoria al padre in galera, e dopo pochi giorni con trofeo alla mano lo visita nel penitenziario dov’era recluso.
Ronnie in tutti questi anni non ha mai smesso di fare le sue smorfie, nemmeno in diretta mondiale (foto di Dan Mullan/Getty Images)
Anziché essere appagato da questo primo successo e dalla accresciuta fama, si sente spaesato e svuotato. Ha vinto il primo torneo full ranking e messo il primo tassello verso la leggenda, ma altresì è vero che non riesce ad essere felice: è un perfezionista della performance, il che lo rende troppo critico verso se stesso. Ma un altro fulmine a ciel sereno si abbatte su di lui: la madre viene arrestata per evasione fiscale, condannata ad 1 anno di reclusione.
L’inferno e la rinascita
Cominciano 5 anni di inferno per Ronnie. Dai 19 ai 24 anni per sue stesse parole perde la trama di tutto, facendo l’opposto di quello che un giocatore professionista dovrebbe fare: gli ritirano la patente, comincia a bere ad usare droghe, è affetto da depressione, una particolare crisi personale legata allo snooker: sentendosi totalmente inadatto al gioco, la fama non fa che aumentare il suo senso di solitudine e al contempo gli fa andare in odio il contatto umano. Vuole solo e semplicemente giocare a snooker, senza pressioni, ma questo lo deprime perché non sente suoi genitori vicini, eppure sa che deve eccellere per loro, per renderli ancora più orgogliosi.
Le stagioni dal 1994 al 2000 portano svariati successi: infrange numerosi record come il 147 (la serie perfetta) più veloce della storia in solo 5 minuti e 20 secondi, impresa a dir poco incredibile. Ma il più grosso avversario di Ronnie O’Sullivan è Ronnie O’Sullivan stesso. Quando la sua depressone sta per schiacciarlo del tutto e sta quasi per abbandonare il gioco, decide di svoltare definitivamente la sua vita: ad inizio 2000 frequenta una clinica per combattere la dipendenza da alcool e droghe e si rivolge ad un famoso psicologo dello sport, Steve Peters. Porta a termine con successo il percorso di disintossicazione e torna al tavolo verde con una mente pulita e fresca: l’amore per lo snooker è forte come quando aveva 10 anni e, dopo solo un mese dalla sua uscita dalla riabilitazione, è già in finale per la Champions Cup, stravincendo il match.
Attenzione: il contenuto del video ha il peso artistico e sportivo pari al gol di Maradona contro l’Inghilterra nel 1986. The Rocket all’opera al Crucible
La leggenda O’Sullivan. Sei volte campione del mondo
Nella stagione vince altri 6 titoli, compreso il Mondiale. È qui che tutta la sua vicenda umana e sportiva raggiunge l’apice: è una annata lunga, generosa di successi ma sfibrante per la mente, specialmente se si considera che “the Rocket” (il razzo, soprannome dato proprio dal suo stile di gioco veloce e letale) è appena uscito dalla riabilitazione e non ha un’autonomia mentale per affrontare i 17 giorni di gara di quasi clausura, di assoluta dedizione sportiva, ed in tutto questo la pressione e la carica date dal fatto che ogni singolo match verrà trasmesso in diretta televisiva mondiale. Appena arriva a Sheffield, sede dei mondiali, deve affrontare una intervista radio, ma è talmente instabile mentalmente che non riesce neanche a parlare ed abbandona l’emittente.
Vuole lasciare il mondiale, dare forfait, ma si ricorda del padre in galera, sa che ogni volta che un suo match viene trasmesso in TV è come se lo andasse a trovare, anzi è meglio di una visita: è un ricongiungimento. Il Mondiale manca nel suo palmares: deve assolutamente vincerlo, poi penserà a cosa fare della sua carriera. Ronnie O’Sullivan travolge tutti, spazza via i veterani della disciplina, colleziona 7 century breaks (le serie da più di 100 punti senza lasciare il turno), alza il trofeo e lo dedica al padre, il quale naturalmente non ha perso nessuna delle sue gesta.
Ronnie è rinato, si è tolto un peso enorme, si consacra come icona unica ed irripetibile dello snooker, uomo simbolo. È il nuovo idolo indiscusso, come lui si definisce “people’s champion” (il campione della gente), “the Rocket” vola verso l’iperuranio del snooker: vincerà altri 6 mondiali, farà suoi tutti i restanti record escluso il numero di mondiali vinti, che rimane saldamente nelle mani di Stephen Hendry.
Ha sconvolto il mondo dello snooker, sul tavolo verde ha fatto vedere di tutto: far saltare le biglie, cambiare mano, tirare usando un braccio solo, parlare con il pubblico durante il gioco, fermare una partita per chiedere quale fosse il premio. Ha preso migliaia di sterline di multe, ancora di più sono le somme devolute in beneficenza, ha fatto entrare la già famosa disciplina biliardistica dentro la vita di tutti i giorni di ogni inglese, l’ha esportata in tutto il Mondo: se prima era conosciuta e seguita solo nel Commonwealth, grazie a lui ora parla a un pubblico mondiale.
Ha dato allo snooker tutto e lo snooker l’ha ripagato con il suo meglio. Ma nonostante questo apogeo mai toccato prima quasi da nessuno, rimane sempre l’ombra del suo tormento interiore, delle sue debolezze, persiste la sua depressione da snooker: se non gioca sta bene, ma come si può sprecare un dono del genere? Deve giocare, ed è condannato a vincere, pensa svariate volte di smettere ma sa che ha un compito più grande da assolvere, e per fare ciò si impone molti altri obbiettivi, affiorando nuovi avversari da battere. Ronnie non molla di certo, ha alti e bassi, ma ha anche una certezza assoluta, oltre ad essere una icona ed un mito vivente, sa che ha un solo avversario da sconfiggere: se stesso.
Far respirare l'immagine sportiva è un dono che pochi hanno, ed è difficile farlo risplendere. Maurizio Cavalli è uno di quelli che ci riesce, grazie a una profonda conoscenza dello sport costruita attorno a una passione sconfinata. Tra NBA e biliardo, attraverso 40 anni di cultura italiana.
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