Origini, miti e segreti di una splendida consuetudine.
Scrivere una storia ufficiale del Terzo Tempo oltre ad essere difficile sarebbe inutile. Difficile perché come le gesta degli antichi eroi, quelle dei “padri” del rugby si tramandano oralmente e il loro ricordo – giocoforza – sbiadisce con il passare del tempo e delle generazioni. Inutile perché il Terzo Tempo non è un istituto ufficiale, ma ufficioso. É il suo carattere spontaneo e in qualche misura necessario a renderlo al contempo così speciale e assieme circoscritto alla disciplina (disciplina più che semplice sport) della palla ovale.
Giusto per intenderci: forse qualcuno ricorderà l’iniziativa della Lega di Serie A italiana che per un periodo volle istituire uno scambio di saluti obbligatorio tra avversari al termine di ogni incontro. Tale scelta, pur sposando lo spirito generale del Terzo Tempo, non ne incarnava il significato profondo che è essenzialmente spontaneo e nasce poi dalla componente fisica, di vero e proprio scontro, che appartiene al gioco.
Mutuando una terminologia politico-giuridica piuttosto efficace potremmo parlare di una simile iniziativa come mossa da una logica top-down, piuttosto che da quella bottom-up che caratterizza invece il Terzo Tempo rugbistico e ne sancisce storicamente sia il successo che la rispettabilità. Quando, nel 1863, i rappresentanti delle principali università inglesi si incontrarono a Londra, presso la Free Mason’s Tavern, al 61 di Great Queen Street, né rugby né calcio esistevano ancora. L’uno e l’altro costituivano una medesima disciplina, sorta di ibrido tra i due codici attuali.
In quell’occasione si discusse essenzialmente di regolamento, operando una scissione: quella tra chi voleva che il football rimanesse “maschio” (con la possibilità di colpire e sgambettare l’avversario in possesso di palla) e chi invece questa regola voleva abolirla.
Fu allora che nacquero il calcio e il rugby come noi oggi li conosciamo (con le debite differenze, dovute a un secolo e mezzo abbondate di evoluzione). Va notato che nel regolamento che ne derivò non venne inserito alcun articolo riguardante la condotta da tenere al termine degli incontri. Come ogni istituto di origine britannica, tuttavia, anche il rugby è costituito – più che da norme scritte – da consuetudini e tra queste spicca appunto quella del Terzo Tempo.
L’abitudine di trovarsi a fine partita con gli avversari si è talmente consolidata nel tempo da provocare una vera e propria levata di scudi in favore dell’istituto, in occasione della Coppa del Mondo francese del 2007, durante la quale – per ragioni logistiche – l’organizzazione aveva annullato diversi banchetti celebrativi post-partita.
Un secondo elemento caratteristico del Terzo Tempo – il primo l’abbiamo detto è la sua natura spontanea – è la rilevanza che la dimensione alcolica riveste al suo interno: birra e vino sono simboli ancestrali di convivialità e comunione e dunque perfetti “strumenti” per la recita di un simile rito. Non la semplice assunzione, però, bensì la resistenza ai loro perversi effetti è stata generalmente accettata come specie di viatico di iniziazione ai “misteri” del Terzo Tempo. E dunque del rugby.
Tale aspetto pienamente connaturato all’esperienza conviviale dell’istituto ne sancisce il carattere popolare, anzi forse – per usare un altro termine oggi in voga – addirittura populista. Ma per quanto ingenua, primitiva o naif tale pratica possa sembrare essa è talmente radicata e anzi connaturata al gioco stesso del rugby che si può giungere ad affermare che senza l’una non esisterebbe l’altro. Almeno non nella forma che conosciamo.
Senza un bicchiere di birra o di vino stretto nella mano al termine di un incontro (e quindi di uno scontro) non si potrebbero davvero lavare via i colpi dati e subiti, reciprocamente, con un diretto avversario. Soprattutto risulterebbe più difficile mantenere il confronto sul campo entro i confini della semplice lotta (una lotta essenzialmente leale e dunque fiera e dunque codificata) senza che questa sfoci alla prima occasione nell’aperta, volgare violenza.
Sotto questa prospettiva la “club-house”, in cui si celebra di norma il Terzo Tempo, costituisce una sorta di camera di compensazione imprescindibile all’asprezza e alle inevitabili tensioni del gioco. Nella mia esperienza di giocatore, il Terzo Tempo non ha assunto la valenza universale e quasi “ecumenica” che oggi invece ha sino a che non ho raggiunto la prima squadra.
Nel rugby giovanile i terzi tempi erano di regola celebrati con un panino al salame e un’aranciata (se andava bene) o da una pasta scotta e l’acqua del sindaco (se andava male). In simili condizioni era difficile superare le naturali ostilità che ottanta minuti di gioco avevano eretto tra noi giocatori. Semplicemente, mancava l’atmosfera adatta a riuscirci.
A diciott’anni invece il mio esordio in Challenge Cup (l’equivalente rugbistico dell’Europa League) contro i francesi del Montauban venne salutato da compagni di squadra e avversari con fiumi di birra serviti con maliziosa solerzia ad ogni sorso conclusivo che riuscivo ad imprimere al mio bicchiere. Assieme all’ebrezza vennero i canti – terzo elemento basilare di un Terzo Tempo – e i “trenta energumeni” di wildiana memoria si trasformarono in una sorta di unicum che prescindeva in pari misura da nazionalità, credo, anagrafe e intonazione.
Una simile logica potrebbe apparire nichilista, ma certo non lo era nelle intenzioni di chi me la proponeva: assumeva piuttosto un carattere semi-sacrale, sorta di iniziazione ad un codice antico di quasi due secoli che mi ero guadagnato sì con i placcaggi dati e ricevuti per un’ora e mezza circa sul campo, ma che andava ora ratificata alla vecchia maniera: bevendo dallo stesso calice e cantando canzoni sporche.
E la musica, appunto. I terzi tempi durano molto più a lungo del solo banchetto che pone fine alle ostilità: essi si protraggono alle volte per tutta la notte e si trascinano per vari luoghi delle città che di volta in volta ospitano i suoi celebranti. I canti che accompagnano queste incursioni rappresentano un altro elemento dionisiaco peculiare. La loro struttura (non il loro suono) ricorda per certi versi il Blues, in particolare quella corrente detta “Dirty Blues” che camuffa nei propri testi allusioni sessuali tanto implicite quanto percettibili.
É un altro aspetto questo proprio del “machismo” sopra richiamato, che completa il carattere de facto politicamente scorretto del Terzo Tempo. Un carattere comunque soprattutto goliardico che sopravvive ancora nonostante che per farlo abbia dovuto in parte mascherarsi, enfatizzando certi suoi tratti più presentabili (rispetto, armonia, fraternità), ad uso del grande pubblico.
In comune con il Blues questi canti hanno poi la struttura “call and response”, in cui un capo-coro guida i compagni con ampi monologhi che si concludono appunto in una fragorosa risposta collettiva. Si tratta di testi semplici, basati su un umorismo non-sense che si fa più tanto più trascinante quante più persone partecipano all’inno.
Nella tradizione italiana spiccano per intensità e diffusione il “Padre Abramo” e la “Ballata del Mełon” (El mełon xè bon/el mełon xè naransòn…), che trascendendo i confini veneti in cui era stata concepita arrivò ad essere cantata (nel suo incomprensibile passaggio per Calvisano) dal 70 volte All Black, Andrew Merthens. Ma anche questa storia – appartenente ad un rugby amatoriale ormai tramontato – viene tramandata oralmente da aedi improvvisati e non presenta conferme scritte né, tantomeno, visive.
Dopo la disfatta del Mondiale 2015 il rugby inglese si è ricompattato, passando quattro anni a preparare la partita perfetta: All Blacks neutralizzati.