Telmo Zarra non è stato solo per decenni il più prolifico bomber della Liga, ma anche un grande simbolo basco.
Il nome di Telmo Zarra forse dice poco a chi non è spagnolo. Se poi si prende il nome per esteso, Telmo Zarraonaindìa Montoya, allora dice ancora meno. Ma per chi ama la Liga spagnola, o Primera Divisiòn che dir si voglia, Zarra è una di quelle leggende che il tempo non potrà scalfire. Anche perché la carta e i numeri sono inappellabili istantanee del tempo. Di un tempo cupo per la Spagna, di una dittatura lunga 40 anni, di momenti duri e sanguinosi, soprattutto per le minoranze etnico-linguistiche.
I suoi 251 gol (in 277 partite) con la maglia dell’Athletic Bilbao non rappresentano soltanto la rivalsa del popolo basco sul potere centrale, almeno in campo calcistico. Sono anche la risposta a un campionato che in quegli anni è portato spesso a parlare il castigliano di Madrid. Salvo qualche eccezione. In questi anni Zarra è stato superato da Leo Messi e da Cristiano Ronaldo nella classifica dei cannonieri della Liga di tutti i tempi, ma poco cambia. Telmo Zarra non è soltanto nel cuore dei tifosi baschi ma anche in quello degli spagnoli innamorati dei campioni che parlano anche un’altra lingua.
Nel 1940, anno in cui Telmo Zarra passa all’Athletic Bilbao, viene soppresso il campionato basco. Le squadre dell’Euskadi se la giocheranno con tutte le altre. Basta con questo separatismo, dicono a Madrid. Parola di Francisco Franco.
Il verbo essere è sempre un verbo strano, piuttosto irregolare. Io sono, tu sei, egli è. Ma nella lingua basca lo è molto di più. Ni zaiz, zu zara, hura da. Gli spagnoli la chiamano la “lengua del diablo”, perché per loro è incomprensibile, diversa da qualsiasi altro idioma iberico. Del resto i baschi non si sentono spagnoli e quella diversità se la tengono stretta. Costi quel costi. La dittatura di Francisco Franco si è abbattuta con particolare durezza contro chi parlava una lingua e manifestava una cultura diversa da quella ritenuta ufficiale.
E pensare che il generalìsimo non era certo un prodotto di Madrid: veniva dalle Asturie, dunque conosceva alla perfezione il gallego e l’infinito patrimonio di conoscenze locali. Ma una volta al potere Franco deve accorpare il Paese sotto una sola bandiera e una sola lingua, un po’ come è accaduto nella Jugoslavia di Tito. In Spagna la Falange impone il pensiero unico ed essere baschi significa stonare nel coro. A prescindere dal colore politico, i dittatori hanno sempre lo stesso problema: sono esseri umani come gli altri e, per quanto longevi possano essere, il tempo per portare a termine i loro progetti non è quasi mai sufficiente.
Per completare certe iniziative, il periodo storico di una generazione non basta. Ma nel frattempo anche il calcio è ridisegnato: nel 1940, anno in cui Telmo Zarra passa all’Athletic Bilbao, viene soppresso il campionato basco. Le squadre dell’Euskadi se la giocheranno con tutte le altre. Basta con questo separatismo, dicono a Madrid. Parola di Francisco Franco.
Alla fine degli anni 30, poco dopo “l’alzamiento” militare, in un paesino basco di nome Erandio c’è un giovane attaccante che sogna di sfondare. Sogna, sì, ma lo fa a occhi aperti e con molto senso pratico. Perché sa di essere forte ed è convinto di poterlo dimostrare, ma serve la ribalta giusta. In effetti il talento si vede, perché ci mettono più tempo gli osservatori a pronunciare il suo cognome che lui a fare gol. Troppo ingombrante chiamarsi Zarraonaindìa Montoya, Zarra è molto più comodo.
Dodici gol in venti partite con l’Erandio rappresentano un buon ruolino per un attaccante, classe 1921, che dimostra di saper segnare sempre e in ogni luogo. E soprattutto, in ogni modo. Ma ripetersi in una squadra più importante, dove le pressioni sono ben altra cosa, dimostrerebbe l’effettiva qualità del ragazzo. L’Athletic Bilbao gli dà fiducia, i fenomeni si scoprono così. L’età è quella di un ragazzo (19 anni), l’espressione è già quella di un uomo. Serio e accigliato, è difficile trovare una foto in cui Zarra sorride. Ma non è con le aperture a 32 denti che si conquista il cuore dei bilbaini.
In quegli anni la dittatura cerca di cambiare anche il nome della squadra di Bilbao. Athletic è troppo poco ispanico, Atletico è la parola giusta.
Non bastano neppure i gol, la gente vuole empatia, attaccamento alla maglia. Niente “tacchini freddi”. Se c’è calore umano, tutto è perdonato. Anche un gol fallito a porta vuota, ma il giovane centravanti non è tipo da errori banali. In Spagna c’è chi dice che Zarra segni con tre gambe, ma non c’è malizia nell’espressione. La terza gamba è la testa, nel gioco aereo ci sono pochi difensori in grado di contrastarlo.
In quegli anni la dittatura cerca di cambiare anche il nome della squadra di Bilbao. Athletic è troppo poco ispanico, Atletico è la parola giusta. La squadra si chiama Athletic perché l’hanno fondata gli ingegneri inglesi in trasferta alla fine dell’800. Non che i baschi siano filobritannici ma di certo sono anticastigliani e farsi imporre un nuovo nome significherebbe rinunciare a buona parte della propria identità. Motivo per cui, intorno alla squadra si agitano sentimenti che invadono la politica. Ed è proprio la politica a imporre un cambiamento indesiderato.
Nel 1941 un decreto governativo impedisce qualsiasi denominazione che non sia di lingua spagnola. Per questo motivo il nome della società passa da Athletic Club a essere Atlético de Bilbao. La situazione si radicalizza, lo stadio “San Mamés”, non è più soltanto uno stadio. Diventa una cattedrale, un luogo di culto laico. Il vessillo di un popolo. E Zarra, che sembra più una consapevole spina nel fianco del potere che un semplice attaccante che fa la sua parte, diventa l’idolo di tutti. È un giocatore corretto, ha qualità di leader e soprattutto porta in alto Bilbao e la sua squadra. Visto che proprio ci si deve mischiare con gli altri, allora sarà battaglia all’ultimo sangue.
I gol di Telmo Zarra danno frutti velenosi per gli altri. Al termine della stagione 1942-43 i rojiblancos, i biancorossi bilbaini, mettono a segno un doppio colpo: scudetto e coppa di Spagna. In campionato, gli ultimi ad arrendersi a Zarra e compagni sono quelli del Siviglia. In Coppa la vittoria è forse anche più sfiziosa: vincere un trofeo è bello, farlo battendo in finale il Real Madrid davanti agli occhi del dittatore non ha prezzo. Per assurdo, quell’anno il centravanti non è pichichi, non è capocannoniere. Ma è solo questione di tempo.
In cuor suo non ama essere convocato nella Nazionale iberica, ma, gli piaccia o no, è spagnolo.
Zarra sarà il miglior marcatore della Primera per 6 volte: 1945, 1946, 1947, 1950, 1951 e 1953. Totale, 251 realizzazioni, una più bella e importante dell’altra. Non vincerà più lo scudetto ma farà sua la Coppa di Spagna, denominata in quegli anni Copa del Generalìsimo, 5 volte in tutto. Oggi, in tempi di maggior democrazia, il trofeo è passato nelle mani della Corona e si chiama Copa del Rey. Il sovrano lo consegna al capitano della squadra vincitrice.
Zarra ha superato la trentina ma continua a segnare come se ne avesse dieci di meno. In cuor suo non ama essere convocato nella Nazionale iberica, ma, gli piaccia o no, è spagnolo. Costringerlo ad avere addosso una maglia che non sente sua sembra quasi uno sfregio. In ogni caso il peso del bomber si avverte: 20 gol in 20 presenze chiuderebbero la bocca al più severo dei critici.
Al di là dei sentimenti personali, un professionista non smette mai di essere tale. All’improvviso però, comincia a sentire il peso dell’età calcistica. “Riduci le fatiche e gli impegni”, gli dice un amico e lui segue il consiglio. A 34 anni cambia casacca e scende di categoria: 3 gol in 14 apparizioni con l’Indautxu, poi 1 gol in 7 presenze con il Barakaldo.
Nel 1957 decide di smettere. È morto il 23 febbraio 2006 a seguito di un infarto, all’età di 85 anni. In suo onore è stato istituito, dalla stagione 2005/06 il Trofeo Zarra, assegnato dal quotidiano Marca al giocatore spagnolo che ha segnato più gol in campionato. Il primo a vincerlo è stato David Villa (25 gol con il Valencia). Nel 2015 il premio è andato a un altro ottimo attaccante basco: Aritz Aduriz Zubeldia, uno che indossa la stessa maglia di un centravanti con un cognome complicato e lungo, inimitabile per costanza sotto porta e per ciò che ha rappresentato nei decenni agli occhi del suo popolo.
“Todo el mundo que haya vivido el fútbol ha crecido con el mítico nombre de Zarra” (“Tutti coloro che hanno vissuto il calcio sono cresciuti con il mitico nome di Zarra”).
Non sono le parole di un calciatore qualsiasi: lo ha detto Emilio Butragueño, uno dei più grandi realizzatori di sempre nel Real Madrid. E quando di un giocatore basco viene data una simile definizione da parte di uno della Capital, è come un gol segnato fuori casa: vale doppio.
La campagna contro la città, il popolo contro le èlites. Un giro per l'Europa passando in rassegna le sorprese (e le speranze) all'attacco dei centri del potere.
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