Dalla stima alla rottura, un amore argentino nei Paesi Baschi.
A Bilbao, come nelle più importanti squadre della Liga, sono i soci i padroni del Club. E sono i soci ad eleggere il Presidente. Sarà così anche in questo 2011, quando ai primi di luglio il popolo “zurigorri” deciderà chi sarà il successore di Fernando Garcia Macua, il presidente uscente ma ancora candidato. Sono elezioni che assomigliano tantissimo alle normali elezioni politiche dei paesi democratici.
Ci sono dei candidati che si presentano, ognuno con il proprio progetto e con una lista di nomi che faranno capo al progetto stesso. Uno dei candidati all’imminente consultazione dell’Athletic Club de Bilbao è Josu Urrutia, un ex-calciatore dell’Athletic che, a Bilbao, ha giocato tutta la sua carriera. Ne è stato capitano, entrando nella cantera dei “Leones” a sei anni e giocando la sua ultima partita con i biancorossi 28 anni dopo.
Quando presenta il suo programma ha già le idee chiare su chi sarà il prossimo allenatore dei leoni del San Mames: Marcelo Bielsa. Bielsa è reduce da una meravigliosa esperienza al timone della Nazionale cilena. Ha formato e cresciuto calciatori di grande livello come Arturo Vidal, Alexis Sanchez, Gary Medel, Matias Fernandez e Humberto Suazo e ha dato un profilo chiaro ad una Nazionale da tempo in crisi di immagine, gioco e risultati.
Urrutia-Marcelo Bielsa, un matrimonio difficile
Le sue dimissioni in Cile sono state giudicate una catastrofe nazionale. Le hanno tentate tutte per convincerlo a rimanere, è sceso in campo perfino il Presidente della Repubblica Sebastian Piñera, promettendo “risorse illimitate” e durata del contratto in bianco. Niente da fare: Bielsa sarà, come sempre, irremovibile. Urrutia spiega il suo progetto a Bielsa e illustra all’argentino soprattutto la filosofia del club.
Solo giocatori baschi o cresciuti nella cantera del Club. Nessun problema. Bielsa, ovunque abbia allenato, è partito sempre da un presupposto: inculcare ai propri calciatori la passione, il senso di appartenenza e l’identificazione totale con i propri colori.
Lo ha fatto agli inizi nel Newell’s quando prima ha scandagliato l’Argentina alla ricerca di ragazzi di valore da inserire nelle giovanili della “Lepra” (fu lui a scovare Mauricio Pochettino, Nestor Sensini, Abel Balbo e un certo Gabriel Batistuta), poi li ha inseriti in prima squadra vincendo due campionati e portando il club ad una finale di Copa Libertadores (persa ai rigori contro il San Paolo di Rai, Muller e un giovanissimo Cafù). Lo ha fatto in Messico, la tappa forse meno conosciuta del percorso di Bielsa ma una delle più importanti; basta pensare che, ad un certo punto, il Messico aveva la nazionale composta da più della metà dei calciatori scoperta e forgiata da Bielsa; tra questi Rafa Marquez, Jared Borgetti e Pavel Pardo.
All’Athletic tutto questo esiste già.
Compromesso totale tra giocatori, club, tifoseria e territorio. È quello che Marcelo Bielsa cercava, quello che probabilmente aspettava da tempo. Lui che ha sempre vagliato con enorme attenzione ogni possibilità che gli veniva offerta. Lui che è rimasto per quasi tre anni (tra il 2004 e il 2007) senza allenare semplicemente perché “le offerte non mi convincevano, non rispondevano ai miei valori o alle mie esigenze”.
Bielsa promette ad Urrutia di “valutare con attenzione la sua offerta”. Questa frase per l’allenatore argentino ha un significato molto particolare, vuol dire mettersi a studiare per conoscere in profondità fino all’ultimo dettaglio il club e i giocatori della rosa: Bielsa si guarda tutte le 42 partite ufficiali della stagione precedente in video, tutte per due volte!
Crea un file con tutte le partite, le formazioni, le presenze, le sostituzioni, i moduli di gioco utilizzati dall’Athletic e dagli avversari, e un altro file per ciascun componente della rosa dell’Athletic per minuti giocati, presenze dall’inizio, sostituzioni e ruoli nei quali è stato utilizzato. Statistiche dei gol subiti e segnati, il modo e il periodo della partita. Un lavoro certosino. Alla fine dà il suo benestare ad Urrutia.
Attenzione però. C’è un particolare importante: Bielsa non sa ancora se Urrutia vincerà quelle elezioni; in caso di sconfitta il nuovo Presidente avrebbe infatti un altro staff e un altro allenatore. Nel frattempo la notizia di Marcelo Bielsa “sul mercato” alletta diverse squadre, in Sudamerica e in Europa. In Spagna ci provano Siviglia e Real Sociedad, ma l’offerta più intrigante arriva dall’Italia: è l’Inter di Massimo Moratti e degli argentini Milito, Samuel e Cambiasso che è pronta a fronteggiare qualsiasi richiesta del manager di Rosario.
“Ho un accordo verbale con Josu Urrutia che mi impedisce di considerare qualsiasi altra offerta”.
Il soprannome “Loco” non è nato in questa occasione ma di sicuro in quell’estate prenderà una nuova e più ampia connotazione. Il 7 luglio finalmente arriva la notizia attesa: Josu Urrutia vince le elezioni con il 55% dei voti e sarà, per i successivi quattro anni, il Presidente dell’Athletic Club. Bielsa prende in mano le redini del club, ma non c’è nulla di scontato, di facile o di immediato.
Intanto c’è una parte della tifoseria dell’Athletic che sente ancora una importante (e dovuta) riconoscenza a Joaquin Caparros, capace di trasformare, nelle sue quattro stagioni al club, una squadra di medio-bassa classifica in un gruppo in grado di conquistare – come nella stagione appena conclusa – un posto buono per le qualificazioni per l’Europa League.
Il credo violato di Marcelo Bielsa. Dal 3-3-1-3 al 4-2-3-1
C’è un altro problema che deve fronteggiare Bielsa. L’Athletic che ha ereditato è una squadra lontana anni luce dal “tiki-taka” che sta prendendo piede nella Liga. I Baschi sembrano una squadra britannica, uscita forse più dalla Championship che da una Premier che sta cambiando, globalizzandosi anch’essa e adottando il gioco ormai di “moda” ad ogni latitudine.
Il referente offensivo della squadra è Fernando Llorente. Si gioca “per” lui e “su” di lui. Dalle sue sponde, dalla sua capacità di far salire la squadra e dalla sua abilità nel mettere in fondo al sacco i cross che arrivano continuamente dalle fasce, dipendono i successi o le battute d’arresto dei Leoni del San Mames. Tutto lontano anni luce dall’idea di calcio di Bielsa.
Le doppie sedute quotidiane, condite da ore alla lavagna a spiegare i movimenti richiesti alla squadra, i video in cui Bielsa mostra quello che pretende dai suoi ragazzi una volta nella cancha diventano prassi per i calciatori dell’Athletic. Ma anche Bielsa è pronto a qualche rinuncia: il suo adorato 3-3-1-3, così amato, studiato e copiato da tanti allenatori a livello mondiale, lascia posto ad un 4-2-3-1 che va molto più incontro alle caratteristiche della squadra e soprattutto al calcio spagnolo.
Il 3-3-1-3 creato da Bielsa al Newell’s e poi utilizzato con grande successo con il Velez, la nazionale Argentina e soprattutto quella cilena partiva da un presupposto importante: in difesa occorre sempre e solo un uomo in più rispetto agli attaccanti avversari.
Infatti, fino a pochi anni prima, il modulo imperante a livello mondiale era il 4-4-2 e, con due attaccanti centrali da marcare, bastavano tre difensori invece di quattro. In questo modo si potevano alzare i due terzini sulla linea di centrocampo, utilizzare un “pivote” (per dirlo alla spagnola) o un “5” come nella più classica tradizione sudamericana, avendo poi un “enganche” (il classifico regista-rifinitore) al servizio dei tre attaccanti, un centravanti e due esterni molto larghi in fascia per permettere sia di attaccare in ampiezza sia di lasciare lo spazio per l’inserimento dei due centrocampisti d’assalto.
In Spagna sono pochissime ormai le squadre che giocano con il 4-4-2, per cui viene a cadere la necessità dei tre difensori centrali. E allora avanti con il 4-2-3-1 con terzini arrembanti, almeno un centrale che sappia “giocare a calcio” e impostare da dietro, e davanti gli esterni larghi: uno che punta il fondo e crossa a ripetizione per Llorente e l’altro che, partendo da sinistra, viene dentro al campo a creare densità nei pressi dell’area di rigore.
Per un processo di cambiamento così radicale però ci vuole tempo. In cinque partite di Liga arrivano la miseria didue soli punti. Bilbao e i suoi tifosi mugugnano ma sono vicini alla squadra, è nelle difficoltà che il popolo dell’Athletic si compatta. “Se non ci sostieni quando perdiamo non ci servi quando vinciamo”. Quante volte ho sentito questa frase da quelle parti.
Bilbao e i suoi tifosi salgono a Lezama, vanno a vedere gli allenamenti e quello che vedono li conforta. Vedono passione, intensità e lo stesso spirito che ha permesso fin dal giorno della nascita del club di non retrocedere mai in Segunda (nonostante sia capitato, più di una volta, che non ci fosse in tutta la Liga una squadra più scarsa tecnicamente dell’Athletic). Il calcio però non è solo tecnica. A Bilbao lo sanno bene.
Bilbao e i suoi tifosi vedono una squadra coesa, che lavora duramente e ce la sta mettendo tutta per apprendere i dettami di uomo, all’apparenza buffo, che gesticola frenetico in tuta in mezzo al campo: lo stesso che è capace di farti ripetere un movimento decine di volte, fino alla nausea, o meglio fino al momento in cui quell’automatismo diventi la cosa più naturale del mondo. Alla sesta di campionato c’è il derby.
Il derby della svolta
Ecco il derby, dunque. Quello con i cugini, spesso sopportati e qualche volta amati per forza, della Real Sociedad di San Sebastian, gli stessi che avevano perfino provato a “rubare” Bielsa all’Athletic pochi mesi prima. Ora giocano nel loro stadio contro una squadra in difficoltà, e soprattutto contro un allenatore che avrebbe bisogno di un po’ più di tempo per inculcare le proprie idee a Llorente, a Martinez, a Susaeta, ad Herrera e a tutti gli altri. In quel 2 ottobre del 2011, tuttavia, l’Athletic vince la sua prima partita in campionato. Un 2-1 che dà ossigeno all’ambiente, fiducia e autostima alla squadra.
Llorente segna i due gol per l’Athletic, due prodezze entrambe di piede. Anche questo ha un suo significato: non si gioca più solo in un modo perché Fernando Llorente non ha solo la testa. Ha anche due piedi eccellenti. Arrivano diversi risultati che confermano la bontà del progetto di Bielsa, nel quale i giocatori dell’Athletic si sentono sempre più coinvolti. Vittorie importanti in campionato (tra cui spicca un tre a zero interno all’Atletico Madrid) e un ruolino di marcia impressionante in Europa League.
Capitan Gurpegi, De Marcos, Amorebieta; sono loro i primi entusiasti fan del lavoro del maestro argentino, e lo testimoniano ad ogni occasione. Stanno tutti imparando tantissimo, e spesso ci si dimentica che questo è uno dei compiti più importanti di un allenatore, a qualsiasi livello: insegnare, non solo vincere.
“Ci sono allenatori che ottengono grandi risultati … ma quella è l’unica cosa che ottengono. Non lasciano nulla nell’anima di nessuno. Non lasciano nulla in eredità. Insegnamenti, stile e crescita individuale e collettiva” .
Sono parole di Johann Cruyff. Bilbao si è rilassata ma il più rilassato di tutti appare Bielsa, mai così a suo agio in una città dove il rispetto e l’educazione sono ancora valori importanti. Nei pochi momenti liberi dal calcio (che per lui sono pochi davvero) prende l’Eusko Tren e va in giro per la Biscaglia, a mangiare il pesce ad Algorta, lo stufato di fagioli ad Arboleda o in visita al convento Santa Clara di Gernika, dove Bielsa, profondo credente, ha stretto amicizia con le suore ospiti della struttura.
Le sedute di allenamento sono praticamente sempre a porte aperte. Nasce una consuetudine bellissima, altro segnale che Marcelo Bielsa ha trovato a Bilbao la sua seconda casa dopo Rosario. Agli allenamenti coinvolge spesso qualche ragazzino del pubblico, invitandolo ad unirsi a lui in campo e a fargli da aiutante, addirittura stimolandolo a dare indicazioni ai giocatori.
Ma è la qualità del calcio che lascia tutti a bocca aperta. Nonostante la difesa non sia imperforabile (Aurtenetxe e Amorebieta sono tutt’altro che due fenomeni) i principi di Bielsa non sono mai snaturati. «Io ho un Piano A. Su quello lavoro per migliorarlo continuamente. Il mio Piano B è fare in modo che funzioni il Piano A». Si gioca per attaccare, per comandare in campo e per fare la partita. La palla deve averla l’Athletic, contro chiunque. Tutto il resto è inaccettabile.
Javi Martinez viene arretrato al fianco di Amorebieta al centro della difesa. Avere un centrocampista che gioca da difensore centrale permette di costruire con più facilità il gioco da dietro. Iraola crea con Susaeta una delle corsie di destra più efficaci di tutta la Liga, Iturraspe si esalta nel ruolo di “pivote” davanti alla difesa, De Marcos ha la gamba da assaltatore che tanto piace a Bielsa e Ander Herrera è l’enganche perfetto perché, oltre alla visione di gioco e ad una tecnica di prim’ordine, è assolutamente efficace anche in fase di filtro. Munian infine, partendo da esterno sinistro, ha la possibilità di svariare su tutto il fronte d’attacco portando scompiglio con il suo dribbling e la sua imprevedibilità.
Davanti Llorente si conferma uno dei più forti 9 di tutto il continente. Ha finalmente raggiunto la maturazione che a Bilbao attendevano con pazienza da anni, durante i quali quel fisico imponente contrastava con una bassa autostima e una fragilità caratteriale in grado di condizionarne le prestazioni sportive. Per restare ai vertici nella Liga l’Athletic concede qualche gol di troppo, ma nelle coppe dà spettacolo. In primis nella Copa del Rey, torneo nel cui albo d’oro, a dispetto del nome, l’Athletic è dietro solo al Barcellona.
Ma soprattutto in Europa League: qui la vittoria negli ottavi contro il Manchester United di Alex Ferguson rimane una delle prestazioni più importanti, spettacolari e complete della storia di questo inimitabile club. È una lezione di calcio quella che l’Athletic impartisce ai padroni di casa la notte dell’8 marzo 2012: Giggs, Rooney, Evra, Young e compagni sono annichiliti da una squadra che non lascia respiro, che attacca con tutti gli effettivi e difende sulla trequarti dei Red Devils.
Una prestazione sensazionale, e un risultato che va a dir poco stretto all’Athletic
«Il calcio è movimento. Non esiste un solo motivo, neppure uno, per cui un giocatore in campo debba rimanere fermo». Questo è uno dei concetti di base della filosofia calcistica di Bielsa. Quella sera l’Athletic toccherà probabilmente il punto più alto di questa definizione.
“È la prima volta che esco da un campo di calcio e non ho capito in quale ruolo giocavano i calciatori di una squadra”.
Questa frase, attribuita sia ad un giornalista inglese che ad un allenatore di una delle nazionali giovanili spagnole, riassume l’idea del calcio di Bielsa e di quanto visto quella sera contro il Manchester United.
Sarà una stagione indimenticabile per l’Athletic Club. Che finirà nel peggiore dei modi, perdendo due finali di Coppa. La Copa del Rey contro il Barcellona di Guardiola (che decise di fare l’allenatore dopo 11 ore di conversazione con Bielsa a Rosario) e l’Europa League contro l’Atletico Madrid di Simeone, uno con idee diametralmente opposte a Bielsa ma che non ha mai nascosto la sua profonda ammirazione per “El Loco”.
Finali perse si diceva. Perse in malo modo, senza rendere giustizia al valore della squadra e soprattutto ai principi di gioco che la squadra aveva messo in mostra in quella – comunque memorabile – stagione. Bielsa lo dirà chiaramente ai suoi durante un discorso negli spogliatoi, “rubato” da qualche cellulare di qualcuno dello staff.
“Non siamo stati all’altezza della illusione e della speranza che abbiamo generato. Non si tratta di aver perso. Non è quello e lo sapete benissimo. Ho sentito qualcuno ridere appena finita la partita. Questo è inammissibile. Un popolo intero ha fatto sacrifici per seguirvi, per venire ad incitarvi e a supportarvi. E lo avete deluso prima in campo e ora con queste risate. Avete deluso un popolo che non lo meritava”.
Quella sera, dopo una profonda ammissione che suonava più come un’accusa diretta, si ruppe qualcosa. Era inevitabile. La seconda stagione di Bielsa all’Athletic fu tutt’altro che memorabile, ma l’eredità di cui parlava Cruyff, i valori, l’etica e la dignità, sono tutt’ora rimasti. Sono stati tanti i tifosi che hanno voluto ringraziare Marcelo Bielsa al termine della sua esperienza nei Paesi Baschi, sui giornali, sui siti dei tifosi e sulle televisioni locali.
Parole come “riconoscenza”, “orgoglio”, “bellezza”, “passione”, “senso di appartenenza”, “onestà”, si sprecano tra i tifosi baschi, come si ripetono titoli come Maestro, Saggio, Dottore e Caballero del futbol. «Non importa quanto hai vinto quanto l’impronta che hai lasciato», disse un giorno il grande Cesar Menotti parlando del mestiere di allenatore. Ecco, basterebbero queste parole per riassumere il rapporto tra Bielsa e l’Athletic.
L’origine del soprannome “Loco”
L’origine del soprannome “Loco”. È il 26 febbraio del 1992. Il Newell’s Old Boys di Marcelo Bielsa sta per iniziare il suo percorso nella Copa Libertadores, a cui si è qualificato vincendo la Primera Division argentina nel luglio precedente trionfando sul Boca Juniors. Non male come risultato per la prima stagione da allenatore della Lepra, i “lebbrosi” che con le “canaglie” del Rosario Central dividono i cuori degli abitanti di Rosario esattamente a metà.
La stagione in corso però non è all’altezza delle attese: il Newell’s stenta in campionato e le prime posizioni sono ormai distanti. Sono in molti convinti che i rossoneri del Parque Independencia abbiano puntato tutto sulla Copa Libertadores. In caso contrario non si spiegherebbe il calo di prestazioni in campionato di una squadra che, non solo tra i tifosi del Newell’s ma anche tra gli osservatori neutrali, aveva stupito e coinvolto. Quella sera però nulla va per il verso giusto.
“Esto es loco”.
Il San Lorenzo strapazza con un umiliante sei a zero gli uomini di Marcelo Bielsa. Acosta, Ponce e Rossi, guidati dalla straordinaria regia di Gorosito, entrano come un coltello nel burro nella difesa del Newell’s dove Berizzo, Gamboa e Pochettino sembrano dei ragazzini timorosi e spaesati. In Argentina perdere due partite di fila è “crisi”, perderne tre è un’apocalisse. Perdere in casa con uno score del genere è semplicemente inaccettabile. Quasi tutti chiedono la testa di Bielsa.
Memoria e riconoscenza sono le parole più inutili e vane del vocabolario calcistico. Il potere delle “Barras bravas” in Argentina è conclamato, e il Newell’s non fa differenza. Una ventina dei più esaltati si reca nei pressi dell’abitazione di Bielsa: chiedono in maniera veemente, per usare un eufemismo, le sue dimissioni. Marcelo Bielsa esce dalla porta di casa.
“Se non vi togliete dalle palle tolgo QUESTO anellino e poi la tiro in mezzo a voi”.
I facinorosi rimangono un attimo spiazzati. Poi guardano la mano sinistra di Bielsa. In mano ha una granata. Nel giro di pochi istanti tutto torna assolutamente tranquillo. Gli “ultras” del Newell’s se ne vanno. Il commento tra loro è uno solo: “Esto es loco”. Da quel giorno, per il mondo del calcio, Marcelo Bielsa è El Loco.