“Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, Così percossa, attonita La terra al nunzio sta, Muta pensando all’ultima ora dell’uom fatale”.
Roma, 5 maggio duemiladue. La primavera rispettava il suo essere con una giornata di sole mediamente calda, una temperatura di circa diciassette gradi, aspettando di diventare la magnifica cornice del dì di festa che non avrebbe avuto come festeggiata una delle due fazioni calcistiche native di quelle parti, bensì di una venuta dal lontano nord, da quella Mediolanum che fu spettatrice dell’evoluzione dell’impero romano.
Il campionato italiano di massima serie volgeva al suo epilogo anticipatamente, rispetto all’habitué, per permettere una preparazione degna alle nazionali che sarebbero partite per la spedizione mondiale in Oriente (ahi, Corea!). Si era giunti al termine, mancava un tassello, l’ultima formalità prima dell’urlo di gioia che gli interisti avevano represso nel diaframma dall’ottantanove. Dovevano soltanto aspettare gli ultimi novanta minuti stagionali e poi tirarlo fuori, l’urlo, a tredici anni dall’ultima volta, per il tredicesimo tricolore della loro storia.
L’ultimo ostacolo era la formazione biancoceleste, ormai certa di un posto in Europa. Lo stadio Olimpico avrebbe fatto, per la terza volta consecutiva, da scenario per i festeggiamenti di uno scudetto: due anni prima Nesta e compagni aspettavano, insieme a migliaia di laziali stremati, notizie da Perugia in un silenzio surreale, l’anno seguente invece non ci fu bisogno di nessuna autorizzazione per esultare: la Roma travolse il Parma, anche se l’euforia dei tifosi fu talmente grande da non resistere neanche fino al triplice fischio e mettendo a rischio un’intera stagione (il buon senso, fortunatamente, prevalse.).
Il 5 maggio duemiladue, invece, spettava all’Inter di Hector Cuper. La classifica prima dell’ultima giornata recitava: Inter in testa a quota 69 punti, Juventus a 68 e Roma a 67. Tre squadre separate da due punti. La Lazio, che non aveva più nulla da chiedere al proprio campionato, era più preoccupata di un’eventuale, seppur complicatissima, seconda vittoria consecutiva dei cugini dell’oltreTevere piuttosto che finire bene di fronte al proprio pubblico. Per qualificarsi campione d’Italia, l’Inter avrebbe dovuto semplicemente vincere contro una Lazio arrendevole. L’Olimpico, specie la curva Sud, era quasi completamente colorato a festa di nerazzurro.
La procellosa e trepida gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile serve pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio ch’era follia sperar
La stagione non ebbe esclusivamente tre protagonisti. Ve ne fu un altro, assolutamente inaspettato, che decise di provare a vedere come fosse, per una volta, combattere per il vertice. Il Chievo Verona fu la vera rivelazione di quell’anno, che alla fine terminò la sua corsa al quinto posto, un punto sotto al Milan e uno sopra la Lazio. Alla fine, all’ultima ora, ne rimasero solo tre ma tutti gli osservatori esterni erano convinti dell’impossibilità di vedere trionfare una squadra che non fosse l’Inter. Troppo facile sulla carta la partita che avrebbe dovuto giocare, troppe le motivazioni per permettersi di farsi sfuggire nuovamente uno scudetto dalle mani. La Roma era impegnata a Torino, contro i granata, e la gara venne decisa al 68’ dal quel genio barese di Antonio Cassano.
All’Olimpico di Roma, prima ancora che la partita iniziasse, apparse sui tabelloni la scritta GOAL. Erano notizie provenienti daUdine, dove era impegnata la Juventus: al minuto due Trezeguet aveva già portato avanti i bianconeri (piemontesi, ovviamente). “Si inizia bene”, avrà pensato un tifoso interista medio. Già si era mugugnato durante l’intera settimana insinuando un complotto nei loro confronti.
Oh quante volte, al tacito morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei, le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono l’assalse il sovvenir!
L’Udinese, infatti, quell’anno rischiava la retrocessione e alla penultima giornata, in casa di un Lecce già matematicamente declassato, vinse con un rigore piuttosto dubbio. Così, si insinuò l’idea che fosse stato tutto architettato per fare in modo che un’eventuale sconfitta la settimana successiva sarebbe stata in qualche modo attutita – per la cronaca, l’Udinese si salvò a quota quaranta punti, limite minimo per garantirsi un altro anno nella massima categoria. Minuto 11’, compare di nuovo la scritta sui tabelloni dell’Olimpico. Di nuovo notizie dal Friuli. Di nuovo goal della Juventus, che aveva già archiviato la pratica raddoppiando con Del Piero. “Vabbè, tanto dobbiamo solo vincere”, è il pensiero dell’interista quivis de populo. Auto-convinzioni per farsi forza che tutto andrà bene.
Toldo, Zanetti, Cordoba, Materazzi, Gresko, Conceicao, Di Biagio, Zanetti C., Recoba, Vieri, Ronaldo. L’Inter entra in campo caricata dalla solita pacca sul petto di Hector Cuper. Facce tese ma consapevoli che questa volta dipende solo da loro. E sarebbe una rivincita immensa contro quegli odiati nemici che quattro anni prima hanno ostruito la loro vittoria senza badare al come. Era giunto il momento di riprendersi ciò che era stato tolto ingiustamente. Al due a zero di Del Piero, rispose a 643 km di distanza Christian Vieri al minuto dodici: corner da destra, Peruzzi non trattiene e il centravanti butta dentro. Delirio. “È andata!”. Moratti, in tribuna, sorride senza troppa enfasi e si fa il segno della croce. Minuto 19: Poborsky pareggia.
La nord laziale non esulta. “Manca ancora tanto”. Cinque minuti più tardi, ancora un corner sulla destra e Di Biagio, romano e romanista, insacca di testa. Uno a due per l’Inter. “È la volta buona!”. Minuto 45: palla alta nell’area di rigore nerazzurra, Gresko azzarda un retropassaggio a Toldo. Dosa male la forza. Poborsky, di nuovo, ruba il tempo al portiere interista e fa 2-2. “Qualcosa non va”. Fino a quel giorno, fino al 5 maggio duemiladue, l’attaccante biancoceleste aveva segnato esattamente lo stesso numero di volte che ha segnato in quella giornata. Due. Forse anche per questo, la società aveva deciso che quella sarebbe stata la sua ultima apparizione con la maglia della Lazio addosso. L’ultima. Il 5 maggio 2002, Poborsky assassino di sogni.
L’Inter va negli spogliatoi incredula di quante difficoltà stia incontrando e come Lei anche tutti i presenti allo stadio. Mancherebbero ancora quarantacinque minuti ma forse è meglio che questa partita finisse lì. E forse, qualcuno mentalmente rimase veramente negli spogliatoi. Un’Inter immobile, impalpabile ed allo sbaraglio, si fa martoriare dalle cannonate prima di Simeone, quasi dispiaciuto di aver fatto un torto alla sua ex squadra, e poi di Inzaghi (che l’Inter è abituata a vedere nel tabellino avversario ma solitamente con un altro nome di battesimo). Il tifoso interista medio non pensa a niente. È svuotato, così come la squadra. Ronaldo viene sostituito da Kallon e anche per lui sarà la sua ultima presenza nel nostro campionato.
Il 5 maggio duemiladue. Ed in panchina, piange a singhiozzi. Come un bambino. Esattamente come quello che, uscendo dallo stadio e rivolgendosi al padre che non parlava da circa un’ora, dice: “Papà, ma mi ero fatto anche i capelli nerazzurri”. E non accetta consolazioni. Non le vuole e come lui non le vuole Marco Materazzi che rinfaccia platealmente in campo alla squadra biancoceleste che lui, col suo Perugia, due anni prima fece di tutto per far in modo che la Juventus non vincesse. Invece loro non ricambiarono il favore. La situazione divenne surreale. Nessuno accettava realmente quel risultato. I tifosi dell’Inter, silenti e incapaci di comprendere, non abbandonavano lo stadio forse per mancanza di forze, forse perché prima o poi aspettavano che succede quello che tutti dicevano succedesse. Ma non accadde più nulla.
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
In un silenzio tetro lo stadio Olimpico, che divenne la perfetta scenografia per una rappresentazione euripidiana, si svuotò lentamente, con qualcuno ancora immobile nella speranza che si cominciasse a giocare. Mentre però Medea uccise i suoi figli per vendetta nei confronti di Giasone, qui non si capisce quale debito avesse il tifoso nerazzurro nei confronti del Fato. Il 5 maggio duemiladue è la data del più famoso suicidio sportivo ed era inutile guardare indietro, alle vittorie passate, per cercare consolazione e voglia di sorridere un po’, perché quelle erano poche e remote. Se si stava cercando, non si sarebbe mai trovata una spiegazione a ciò che accadde quel caldo giorno di inizio maggio. Il 5 maggio duemiladue qualcosa non funzionò, questo è certo, ma non si riesce a capire né come né perché. In quella partita, tutto quello che si susseguì era un qualcosa di anomalo. Anche i tifosi di laziali, che perlomeno non avevano visto trionfare per la quarta volta la Roma, erano piuttosto amareggiati dalla loro squadra. “Mortacci vostra! Se giocavate tutto er tempo così vincevamo er campionato!” gridò un tifoso in tribuna.
Spiegare cosa significhi il 5 maggio duemiladue per un interista è cosa assai complicata . Ci troviamo di fronte alla più grande sconfitta che un tifoso possa subire: essere scavalcato e veder trionfare all’ultima giornata chi si ha sempre odiato. L’anno successivo l’opportunità di vendicare quanto successo si infranse in semifinale di Champions League sul ginocchio di Abbiati all’ultimo minuto ed a Manchester, contro la Juventus, ci andarono gli altri nemici di sempre. Però c’è una cosa che bisogna precisare. L’interista non scambierebbe mai e poi mai quel maledetto 5 maggio duemiladue per nessuno scudetto. Quella data, quella sconfitta, è cosa sua e guai a chi gliela tocca. In quel giorno si è attuato alla perfezione l’interismo: vedere ma non toccare.
È sempre stato così nella sua storia. Forse è per questo che i trionfi che verranno dopo avranno un sapore diverso per chi è stato costretto a spezzarsi ma non si è piegato al volere altrui. Forse nessuno mai ha patito più di un interista x, con buona pace di chi spesso è arrivato alle spalle della capolista di turno. L’Inter parte ogni anno col vento in poppa ma con destinazione isola di Sant’Elena, suo malgrado.
Difficilmente quella nave torna indietro e, se lo fa, è solo per regnare al massimo altri cento giorni. Il 5 maggio duemiladue è la ferita, l’insopportabile fardello e l’incubo che ritorna periodicamente nella testa di un interista. E superarlo è quasi impossibile anche se, per riprendere il realismo critico di George Santayana, coloro che non ricordano il passato, o meglio coloro che fanno finta di non sapere, sono condannati a ripeterlo. Lì allora avremmo la vittoria dell’interismo che sconfigge la sua stessa natura di perdente. Perché questo è: una stupenda zitella che non riesce a trovar marito. Ma siamo sicuri che voglia snaturarsi?