Abbiate pure pietà di noi.
Mai avuta particolare simpatia per la figura dell’arbitro. Specie quello di pallone. Simbolo intoccabile, che si muove con disinvoltura lungo il campo, avanti e indietro come un gambero. Fischietto alla bocca, guance gonfie; il capello rigorosamente fissato con abbondante gel (qualora non sia pelato: stadio supremo), la mano che non vede l’ora di estrarre il cartellino e affermare dalla parte di chi è rivolto il manico del coltello.
Divisa gialla o nera, incarna la Legge che non deve spiegazioni, il controllore permaloso e difficile da controllare, l’intermediario ideale di qualsiasi corruzione da romanzo. Colui che dà inizio e fine al gioco, che ne decide in fondo le sorti, che avanza verso il cerchio di centrocampo con la schiera di aiutanti al seguito, pronti a perimetrare l’area di gioco, a concedere l’ingresso e l’uscita di nuovi attori della gara. Nonché, si capisce, la vittima necessaria a garantire una parvenza di ordine all’interno del quadrato erboso – anche nel calcio, ahimé, l’anarchia resta un sogno inconciliabile con la realtà.
Eppure ieri sera, guardandolo in azione in quel di Torino, ne ho avuto pietà.
Non solo per una divisa sempre più tappezzata di sponsor – si è mai vista la Legge che suggerisce quale acqua bere? – ma soprattutto per la serie di armamentari tecnologici appiccicatigli addosso in modo raffazzonato, addirittura una telecamera ad altezza occhio, appesa con lo scotch al padiglione auricolare, con cui correre e rimanere lucido pur sapendo che qualsiasi disattenzione sarà immortalata in eterno dal suo letterale punto di vista. Mentre noi, si capisce, dal nostro divano, all’ennesimo ralenti, diremo che in sua vece ce ne saremmo accorti, avremmo deciso nel modo giusto. Noi che non sapremmo distinguere in diretta un granchio da una balena. Per lo spettacolo, del resto, questo e altro.
Cos’altro, è presto detto. Costretto a giustificare le scelte del VAR ad alta voce, con esiti da cinegiornale Luce, come uno scolaretto in cattedra a cui si chieda conto della risposta data al compito, il direttore di gara è stato ridotto a macchietta, ad un cyborg preso da un manga di Toriyama, con quell’assurda telecamerina all’orecchio e la regia che di tanto in tanto ci mostra come sarebbe stare al posto suo – risposta pronta: tremendo.
Prima pareva un Leviatano che rende possibile (e al contempo invivibile) la vita, che incarna la Norma arrogante e sprezzante per definizione. Ora fa quasi pietà, come un vecchio dittatore allo stato terminale, o un padre un tempo despota e ora ridotto a un mucchio di ossa tremolanti e fredde.
In uno stadio che pare un’opera teatrale, o meglio un reality show, sembra quasi impossibile che prima ci bastasse solo la partita: poter immaginare i retroscena, insultare la Lega italiana per sineddoche e con il dubbio di farlo a torto; che si potesse non saper tutto, persino la matrice di ogni errore.