Il segreto di Diego Sermonti, portiere degli Azul.
Sono qua, piantato, mi pare da sempre. Sermonti, Diego Sermonti, portiere degli Azul. Avrò segnato 37mila gol, giocato 500mila derby, parato un milione di tiri, e subito un milione di gol, eppure ancora ho mal di stomaco appena sento la bola cadere sul campo. Facevo le ripartenze dal basso quando La Volpe era bimbo e veniva a vedermi giocare, impostare, respingere o provare. Con me Chilavert ha capito come tirare le punizioni. A Higuita, poi, ho spiegato che il suo scorpione è solo una rullata.
Il fútbol è così: sguardo, tecnica, sostanza, ripetizione. Azione che si ripete. L’emozione no, quella cambia sempre, potrei dire con Maradona che la palla non si macchia, anche se su certi campi sì, e l’emozione non si ripete, un rivolo di sudore in più, un centimetro in meno, una sponda sbagliata, e via così, fino alla fine.
Ho cominciato a Rosario, un pomeriggio di pioggia, grazie a Roberto Fontanarrosa, anche se ho radici francesi, tedesche e persino italiane. Col sole e con la pioggia, ho sempre cinque uomini davanti, due a difesa e tre contro. La banda rossa, con un paio di loro quanta stima, con altri meno. Il centrocampista che ti fa gol, lo odi sempre, perché ti fa sembrare cieco, vi ricordate quando lo dicevano di Zoff? L’ho conosciuto, un monumento mobile, come i tram di San Francisco.
Stare in campo non è mai semplice, al massimo ti sembra di conoscere i movimenti degli altri, ogni partita è un déjà-vu che ti tradisce, se ci pensi ti angosci; se non ci pensi: guardi le birre intorno e le facce di quelli che le bevono, può essere anche peggio, io seguo la bola, e seguendola resto attento. Ogni gol ha un suono, alcuni li senti fischiare come certi fuochi d’artificio, altri sibilano e poi mordono i lati, diagonali irraggiungibili, altri sono sporchi, partono da un contrasto, uno STOMP, e poi diventano perfezione. Ogni gol è una menzogna di sostanza. Puoi sempre rifarti, rigiocare, ma in quel momento non riesci a pensare ad altro che all’inganno, e poi al suono, e poi all’inganno, tanto che spesso prendi il secondo mentre stai ancora pensando al primo.
Altro che videopoker e macchine della solitudine. Il biliardino è comunità, azzardo orizzontale.
Io li riconosco subito i portieri, siamo una specie a disagio, solitari e pensierosi, goffi – anche il più bello – abbandonati alla sorte ed esposti all’irrisione, un po’ gatti e un po’ coglioni, anche se tutti ci vedono eroi, io, per dire, stando in porta con una bionda che mi guarda: non penso a Camus, al Che, a Juan Pablo Segundo, che tutti nominano sempre, ma a Philippe Petit, perché mi sento funambolo anch’io, sospeso sulla linea, con l’ombra alle spalle, in attesa d’essere freddato da un tiro, umiliato da un rimpallo, castigato da un errore.
È dura la vita del portiere. Il sole barbaro ti mangia gli angoli, la pioggia ti sega le traiettorie, e persino quando tutto sembra meteorologicamente in ordine: ti senti a disagio.
Poi io sono un portiere che dipende dalle mani di un altro, capisco tutto dall’impugnatura, sento la presa e so come andrà a finire, chi mi deluderà e chi no, è difficile che io sbagli, con gli altri nel campo lo chiamiamo “l’ufficio mani”: dal dettaglio indoviniamo carattere, ceto, e spesso anche partito politico e orientamento sessuale.
Il biliardino è la replica di un gioco di piedi, il fútbol, attraverso le mani, un ossimoro, dove l’unico che nel gioco può usarle nella replica non le ha, certo nemmeno gli altri le hanno o in alcuni casi le portano lungo i fianchi come sentinelle senza fucile, ma per loro è più facile, si evitano i rigori. Ecco, il nostro è un fútbol senza rigori né punizioni ma con le sponde, poco gioco aereo – Pep Guardiola: non ti sei inventato niente –, giusta distanza e più ritmo di Jürgen Klopp.
Si arriva a sette, a nove, a undici, su tre partite, o due, dipende dai tornei, ma quello che dà fastidio è chi suda, di mani, e appiccica tutto; prima eravamo anche l’unico sport dove si fumava in campo, e pure tanto, che a volte sembrava di giocare nella nebbia della Yugoslavia. Ci sono anche da noi i simulatori e gli imbroglioni – dove se in famiglia il padre ruba anche il figlio a un certo punto la butta via – ma è più difficile. Gli antipatici e gli stronzi, i simpatici fino a quando non ti segnano, e quelli che ci restano anche dopo il gol.
La bola ha rimbalzi e tocchi e direzioni che sembrano sempre le stesse ma con una diversa imprevedibilità, le desideri, perché è nella crescita delle difficoltà generate dalla bola che ti diverti. Io le cose migliori le scopro quando giocano i bambini, che mi costringono a gesti sbilenchi, strappi, acrobazie da clown e a scene da vecchi film del muto. La lotta è uguale, con meno possibilità e più fantasia, a biliardino devi guardare a orecchio, in fondo a un passaggio ci può essere di tutto, più che in un passaggio vero. È nella bugia che esiste il racconto, se penso agli attori che vogliono fare solo se stessi, nessuna trasposizione di genere, mi appare chiaro che non hanno capito che la forza del cinema sta nel suo essere menzogna. Così quella del gioco nell’accettare regole e limiti.
Il calcio è cinema naturale, il biliardino è teatro sperimentale.
Una volta ho avuto l’onore di servire Maradona, non so come era capitato nel mio bar, ma fin dall’impugnatura ho capito che c’era un altro mondo a possedermi. Una luce che mi cadeva sotto i miei piedi da funambolo, era il suo sguardo quando faceva traghettare il pallone tra i difensori. Il suo desiderio di stare in porta era esplorazione dell’altro, qualcosa tra Oliver Sacks e Walter Bonatti. Nessuno mi ha segnato. Abbiamo vinto, anche se davanti giocava Pelé. Come ho parato a Zidane più tiri di Buffon, riusciva a roulettare anche al biliardino, monacale, e difficilissimo da tenere. Ma chi gioca sa che solo le macchine sono facili da marcare.
Mi dicono che in Italia hanno provato a considerare il biliardino come gioco d’azzardo, poi hanno ritrattato, ma lo è sempre stato. L’azzardo di immaginare e aggregare, è pericoloso, per questo in quasi tutti i bar del mondo i giochi che aggregavano sono scomparsi in funzione delle macchine sputasoldi. Un biliardino non lo puoi fermare. Perché come il calcio è difficile da bloccare. Wembley, Maracanà. Bombonera, eccoli qua immaginati da un operaio, un bambino, un nullafacente, un calciatore infortunato per sempre, un sovrappeso che va di rovesciate e Borges che para.
Il biliardino è Ray Charles che guida, ve lo ricordate no? dov’era in Islanda?, o chissàdove, contava solo l’esserci, e poterlo fare, con la menzogna, il trucco, e chissenefrega. L’Italia era il paese che mentre vinceva il mundial in Spagna nel 1982, oltre a rompere le palle a Bearzot, vietava ai suoi bambini di giocare a calcio nelle scuole, nelle piazze, sui sagrati delle chiese, dimenticando che tutti, proprio tutti – santi, poeti, navigatori, paolorossi e gigiriva – lo avevano fatto. Clandestini.
Il calcio è stato a lungo una delle uniche rivelazioni, in alcuni paesi era la verità assoluta, in altri la più grande delle bugie, e il biliardino seguiva a ruota, come replica in piccolo di quella vertigine orizzontale, mani che sognano d’essere piedi, e io sono ancora qua, piantato come un albero, con le mie paure di portiere, nessuna mano per gli autografi, la consapevolezza d’essere una specie a disagio e un lato sempre scoperto dal quale arrivano i tiri che non riuscirò mai a parare.