La ripresa del campionato statale di Rio è solo l'ultimo folle provvedimento presidenziale.
Se non ci fosse Donald Trump, forse Jair Bolsonaro avrebbe raccolto i frutti della sua sconsiderata presidenza. Invece, con oltre un milione e mezzo di casi confermati, deve accontentarsi solo della seconda piazza sul podio dell’orrore nella folle gara del Covid-19.
Eppure il riservista di Glicerio non si perde d’animo, e fa rumore l’ultimo suo provvedimento che riafferma l’obbligo della mascherina nei luoghi aperti, ma libera i volti nelle fabbriche, nei negozi, nelle scuole e nei luoghi di culto, ingranando una marcia in più nella sua ostinata rincorsa verso il suo mentore a stelle e strisce.
Gli effetti non sono tardati ad arrivare: è ufficiale la notizia che lo stesso presidente abbia contratto il virus dopo aver continuato, in modo irriverente e irresponsabile, a partecipare a cene e incontri con imprenditori e uomini forti della politica (non a caso l’ambasciatore americano Todd Chapman) rigorosamente senza mascherina, postando foto di sorrisi e abbracci che tanto «il virus è poco più di un raffreddore».
Ovviamente, nemmeno lo sport poteva sfuggire alle istrioniche trovate del presidente paulista. Insieme al sodale governatore dello Stato di Rio de Janeiro Wilson Witzel, aveva già dato il via libera al campionato statale di Rio de Janeiro il 18 giugno, quando i casi confermati nello stato erano 64.000 e i nuovi contagi 6.000. E meno male che il Sindaco della città di Rio de Janeiro, Marcelo Crivella, non ha accolto la disposizione dell’illuminato presidente di riaprire gli stadi, seppur a capacità dimezzata (ma non temete, dal 16 agosto non ci saranno più restrizioni, stadi pieni, libera tutti e si salvi chi può).
In pieno picco epidemico viene da supporre che la partita tra Flamengo e Bangu al Maracanà, di fronte a 35.000 persone, non fosse un’idea particolarmente brillante.
Ma oltre alle disposizioni illogiche di un Presidente in balia totale degli eventi, anche il ruolo dei calciatori è completamente compromesso. Nell’arco dei 90 minuti del match vinto dalla squadra di Diego e Gabigol, l’ospedale da campo allestito in prossimità dello stadio carioca faceva registrare 2 dei 274 decessi quotidiani nello Stato di Rio de Janeiro.
E così, in un clima spettrale, le grida enfatiche dei cronisti brasiliani alle reti del Mengāo, tipiche nelle ‘O’ infinite della parola ‘gol’, facevano da contraltare a quelle di disperazione dei sanitari nella terapia intensiva adiacente, scandite dai ‘bip’ costanti delle macchine in funzione.
Ma in fin dei conti poco importa perché la presidenza di Bolsonaro, sempre più simile a un regime autoritario che a una democrazia, con una serie di misure volte a minare l’ordine costituzionale, ha l’esigenza endemica di mostrare la faccia felice del Brasile. Quella naturalmente del pallone.
Ecco perché nelle celebri spiagge di Copacabana e Ipanema non è possibile sostare (giustamente) per prendere il sole, ma è consentito fare sport: perché prima di arginare il contagio bisogna esportare il prodotto nazionale, i palleggi educati di funamboli improvvisati, dove si suppone che il sudore sia spazzato e il distanziamento sociale assicurato dalla brezza dell’Oceano.
E a maggior ragione come potrebbe fermarsi a tempo indefinito l’eccellenza brasiliana per antonomasia. Il talento verdeoro del dribbling deve riempire le televisioni, il tifo accorato e patologico deve distogliere lo sguardo da una crisi sanitaria e istituzionale senza precedenti. Ecco perché bisogna tornare a giocare anche se le condizioni non esistono (più che sussistono): perché riprendendo Marx, ma rimestandolo alla bisogna, nel ventunesimo secolo il fútbol è l’oppio del popolo brasiliano.
Chissà che i 65.000 decessi in tutto il Paese abbiano aperto una piccola falla nella presidenza Bolsonaro: i movimenti popolari Estamos Juntos, Basta! e Somos 70 stanno riportando la legalità al centro del dibattito e veicolando un dissenso sociale evidente, come esibito dall’installazioni di croci che hanno invaso Copacabana qualche giorno fa, in aperta contestazione con il governo centrale.
E il calcio sembra essersi stancato di essere comprimario dello scempio perpetrato dal Presidente, così domenica, Botafogo e Fluminense, squadre che si erano rifiutate in un primo momento di scendere in campo, hanno imbastito una protesta civile quanto determinata.
Le maglie del Tri e del Fogāo hanno esposto il messaggio: ‘Respeitem nossa historia’ e condiviso un manifesto ideologico di 10 punti, che dissacra la folle decisione della ripresa dell’attività calcistica nello Stato di Rio. La forte presa di posizione delle due squadre segna una frattura e lancia un messaggio al mondo dello sport, come valore sociale e non come braccio armato di un potere cieco; finalmente il buon senso esprime tutta la sua forza, e l’individuo recupera la sua identità molto più che la sua funzione.
Certo la partita alla fine si è giocata, perché in fondo il pallone in Brasile è tornato a rotolare, ma la sensazione è che sia il Paese ad andare a rotoli.