Le estrose geometrie calcistiche attraverso il fumo delle sigarette.
Il mucchietto di cicche immancabilmente lasciato sotto la panchina dopo ogni partita, il cappotto di cammello portafortuna, le canzoni di Peppino Gagliardi fatte ascoltare (e cantare) negli spogliatoi, la sua dimensione partenopea e parte sanremese (è nella località ligure che passava sempre le vacanze e ed è lì che riposa), il gauchismo argentino mai tradito nonostante l’amore per l’Italia, l’affetto (ultraricambiato) per una città come Napoli con la cui maglia tra il 1952 e il 1960 disputò quasi duecentocinquanta partite prima di tornarvi poi in tre mandate, non tutte fortunate, da allenatore. Bruno Pesaola, per tutti e per sempre il petisso (il piccoletto) potrebbe essere racchiuso anche in questi brevi cenni molto poco tecnici, ma sono cenni fondamentali su un personaggio che di calcio sapeva molto e che molto sapeva anche di umanità, che dal calcio ha avuto e al calcio ha dato molto.
Era figlio di emigranti, Pesaola, di emigranti marchigiani, e se non fosse stato per il pallone probabilmente in Italia non ci sarebbe nemmeno mai tornato, lui che si definiva spesso – sicuramente anche per l’amor di scaramanzia assai diffuso da quelle parti – “un napoletano nato all’estero”. Eppure, ed è quasi un paradosso, la sua gloria maggiore il “petisso” l’ha vissuta a Firenze, in una città da sempre misurata, conservatrice, chiusa in se stessa, con un debole sì per le polemiche, ma non certo per qualsivolglia esuberanza – con una squadra, per giunta, le cui maglie sono di un colore che la gente di spettacolo ha sempre odiato – e dotata di una passione calcistica capace di trascendere ogni cosa, delusioni patite a getto continuo comprese.
Anzi, proprio il continuo patire, unito a quell’orgoglio tipico delle città di provincia dal lussuoso passato, si può dire abbia spesso trasformato, almeno fino a qualche tempo fa, la carenza storica di gioie in carburante per nuove avventure. L’ultima e più gloriosa delle quali, lo scudetto del 1969, fu guidata proprio da Pesaola, che da allenatore portò al trionfo una squadra in cui a inizio stagione lui mostrava di credere ben più degli stessi tifosi, che a Firenze sono di una razza particolare, di quelli con la critica incorporata nei tamburi e nelle bandiere.
Spensieratezza e responsabilità. Queste le armi vincenti di Pesaola, che prese in mano la squadra giovane tirata su da “babbo” Chiappella dandole nuove motivazioni e nuove dinamiche di gioco, facendo tesoro delle scelte oculate di un presidente Baglini industriale dell’inchiostro che tutto si sognava meno che di poter scrivere il suo nome negli albi che contano di più. Brugnera, il giovane che con quelle esagerazioni tipiche del giornalismo calcistico avevano paragonato a Di Stefano, era andato al Cagliari (a Firenze era arrivato Rizzo, piede piccolo e tiro potente, da copione); Bertini, il figlio di macellaio empolese grande mediano ingiustamente dimenticato era stato venduto all’Inter per 400 milioni; l’immenso Hamrin era già al Milan, dove era appena approdato il portierone Albertosi e dove sarebbe arrivato poi qualche anno dopo, anche “cavallo pazzo” Chiarugi, gustosamente, cechovianamente ribattezzato, da un pubblico che a Firenze sapeva anche non esser becero, “zio Vania”, per via del suo nipote Emiliano Macchi, che dell’estroso zio aveva solo i riccioli; Humberto Maschio, uno che poteva addomesticare di collo il rinvio del portiere senza far toccar terra al pallone tanta era la dolcezza di tocco, era tornato in Argentina.
Di stranieri ce n’era solo uno, e per di più con un carattere molto sudamericano. Si chiamava Amarildo, ai tifosi aveva fatto già luccicare gli occhi ai tempi del Botafogo in un quadrangolare fiorentino e dopo qualche bizza di carattere economico, si era presentato infine a Pesaola. «Eccomi qua, cerchi di trovarmi il posto adatto in formazione, poi ne vedrete delle belle». Il mister il posto in squadra glielo trovò eccome, sulla sinistra, cervello segreto di tutto l’undici viola. Col petisso, il “garoto” avrebbe giocato il suo miglior campionato italiano.
E poi il portiere poco appariscente ma totalmente “garantista” (ma non in senso berlusconiano!) Superchi, il rude terzino Rogora, lo stopper dai piedi buoni Brizi, il compianto liberone Ferrante che per scaramanzia non si fece mai la barba dopo l’unica sconfitta (casalinga, col Bologna) di quel campionato, un centrocampo da manuale (il motorino Esposito, la mente De Sisti , lo stiloso Merlo e l’intelligentissimo Amarildo) che, sia ci fosse Rizzo o Chiarugi sulla fascia (Pesaola li alternò, sagacemente) non perdevano un colpo; tutti a far gioco per un Maraschi arrivato a Firenze con la passione dei cavalli e senza aspettative da parte dei tifosi, ai quali non parve vero di ricredersi a forza di reti segnate da quel centravanti che segnava a ripetizione.
A questa banda di ragazzi di talento Pesaola dava rigorosamente, rispettosamente del lei, e tutti con grande rispetto lo seguivano, perfino nel cantare le canzoni di Peppino Gagliardi prima di ogni partita, sapendo con ironia sdrammatizzare nei (pochi) momenti difficili vissuti. Lo seguiva perfino Chiarugi, che in campo era capace d’inginocchiarsi sul pallone per scherzare o di segnare di esterno sinistro direttamente su calcio d’angolo facendo incazzare e godere una tifoseria divisa in due, e fuori di girare con le pellicce come il suo simile Zigoni o di far stampare la propria firma sulla sua Montreal arancione). A bordo campo, Pesaola non si scalmanava, forse perché troppo indaffarato a fumarsi le sue sigarette.
Stava seduto in panchina, ma attraverso tutto quel fumo ci vedeva benissimo, e la sua squadra era tatticamente perfetta: cortissima, elastica, pronta a distendersi in avanti con soluzioni offensive sempre diverse, aiutata quell’anno anche dalla fortuna che risparmiò dagli infortuni (che a quei tempi erano comunque più rari) i giocatori. L’ultima partita col Varese fu quasi una formalità, segnò perfino Merlo, e ho detto tutto, perché per lui la porta quasi non esisteva. Lo scudetto vinto in quel 1969, tredici anni dopo il primo di Bernardini, fu una vera rivoluzione, una festa che i fiorentini sapevano bene di doversi godere fino in fondo perché chissà quando sarebbe ricapitato (mai, infatti); una festa che aveva avuto per regista un argentino destinato, con quell’impresa, a rimanere nel cuore di tutti: il secondo, nella storia dei viola, dopo il Petrone bomber degli anni Trenta, e prima di altri due “tipacci” di anni a noi più vicini: il trascinante Passarella, e il travolgente Batistuta, che a Firenze ha vissuto (e lasciato) i suoi momenti calcistici più belli.