Le elites in azione, ma c'è chi pensa ai falli di mano.
“Non ci sarà nessuna Superlega”. Titolavano così, un paio di settimane fa, giornali come la Repubblica o La Stampa l’articolo sull’incontro di Bruxelles con Andrea Agnelli, presidente della Juventus. Bastava togliere la tara di sudditanza giornalistica, e il negativo diventava positivo: ci sarà la Superchampions, che alla Superlega ci assomiglia molto, in quanto ne fa proprio l’architrave: le squadre più titolate, le più ricche il loro posto fisso lo manterrebbero sempre, indipendentemente dal piazzamento nei rispettivi campionati, senza correre il rischio cioè di trovare inciampi tipo Leicester a scombussolarne piani e investimenti (spesso difficilmente comprensibili, peraltro: il Manchester United del dopo-Ferguson è una specie di film horror, in tal senso).
Quando questo Eldorado per pochi eletti partirà, di preciso non si sa. L’avevano annunciata per il 2018 ma troppi sono i suoni da accordare, troppe le tasche da soddisfare, troppi i malcontenti da contenere, troppi i possibili rovesci da affrontare. 2024 o no che sia (questo l’anno dato ora per probabile), l’importante è che passi il concetto che lo stesso presidente della Juventus aveva espresso al Guardian: “Vogliamo più partite in Europa e meno nei campionati nazionali”. Chiaro il concetto, ancor più chiara la filosofia di fondo che lo sottende: più soldi per pochi eletti, e il cui eufemistico slogan è “la visibilità del marchio è tutto”.
Andrea Agnelli è un uomo in missione.
Come arrivarci, non è chiaro o forse non si può dire, UEFA ed ECA sono al lavoro da tempo ma lo schema, per un’Europa che oggi ha una Champions League a 32 squadre e una Europa League a 48 (totale 80 squadre), dovrebbe essere di questo tipo: tre veri e propri tornei, tutti a 32 squadre (totale 96), che equivarranno ad una vera e propria suddivisione in serie A, serie B e serie C europee. La prima continuerà a chiamarsi Champions (o Super Champions), la seconda Europa League, mentre si dovrà trovare un nome per la nuova nata (che sicuramente non sarà Giuseppina). La Champions sarebbe sempre a 32 squadre, ma divise in quattro gruppi di 8, anziché 8 gruppi da quattro come è adesso. Il perché è semplice: ogni squadra giocherebbe 14 gare anziché 6: più gare, più soldi. Agnelli spiegava il tutto come “una normale evoluzione del gioco”. Ma se il “cosa” è chiaro e il “quando” quasi, è sul “come” che si discute. Perché è lì che alloggia il cuore oscuro di tutto il progetto. Le uniche, tristi partite di qualificazioni riguarderebbero unicamente la terza Coppa, lasciando ai grandi club la libertà di andare in giro per il mondo, in estate, a incassare altri soldi con luccicanti tournée.
L’altro aspetto riguarda la sorte dei campionati nazionali. L’ipotesi più inquietante – e su questo non per nulla glissano tutti gli interessati – prevedrebbe la nuova Champions nei weekend e la serie A a metà settimana, una serie A rivalutata dai proponenti come “laboratorio per giovani”, secondo un inesorabile processo di impoverimento e declassamento dagli effetti letali. Perché è probabile che mentre i diritti televisivi UEFA (specie quelli della Super Champions) andranno alle stelle, quelli dei campionati nazionali crolleranno.
In tempi di Brexit, di Trump, di governi giallo-verdi, di crisi insomma delle élite (che comunque non sono più vere élite), di antagonismi sociali schematicamente marchiati come “populismi”, l’operazione in atto appare in netta controtendenza. Un po’ come se una suora si mettesse a fare l’occhiolino. A meno che qualcuno non esalti il brutalismo linguistico che ha preso piede in questi ultimi anni, basato tutto su cattiveria, voglia di far male, undici guerrieri e similari, come se fino ad ora fossero andate in campo solo damine del settecento.
La International Champions Cup: il trofeo che merita questo calcio.
Potenza di uno sport i cui interessi e i cui privilegi sono tali da poter risultare completamente impermeabile a qualsiasi vento di pensiero, tendenza sociale, a qualsiasi convinzione pubblica, forte di un indotto da fantascienza e protetto per questo da una cupola resistente di cui è parte integrante la quasi totalità di un’informazione tiranneggiata non sai mai se più dall’ignoranza o dalla mancanza, diciamo così, di curiosità. Parlare dello schema di Tizio o del fallo di mano di Caio non solo è sicuramente più facile (qui non c’è bisogno di nessun VAR, basta il bar), ma è decisamente più innocuo che occuparsi dei giochi di potere e degli interessi in azione intorno, sotto e sopra quella che i francesi chiamano la “pelouse”. Per questo le uniche (rare) frizioni che ci si possono aspettare da giornalisti ed ex calciatori avvengono con la categoria degli allenatori. Chissà perché ma i nostri cari “opinionisti” sempre guardinghi su cose che possano risultare poco gradite non solo alle nostre società (specie se potenti) ma anche agli stessi procuratori, veri motori ambigui di un sistema che si dimostra in grado di superare inciampi e problemi che per noi umani suonano come abissi di senso. Chi ha consuetudine con i programmi di Sky sono convinto capisca facilmente cosa intendo: dalla mezz’ora di programma che precede l’incontro Brighton-Manchester City dove il Brighton è come se non esistesse, alla riproposizione sulla scena di giocatori come Balotelli o Ibrahimovic che per ragioni diverse (caratteriali o anagrafiche) non avrebbero più ragione di appartenere a nessuna ribalta di attualità.
Ma l’ipocrisia del sistema va addirittura oltre. Perché per funzionare, per apparire credibile, l’urlata e pervasiva retorica da top player a tutti i costi ha bisogno anche di una certa dose di romanticismo, che anche nel calcio, come nella musica rock, si tinge dei colori pop del vintage, ovvero dell’elogio del talento maledetto, del perdente di successo, con la certezza, più che il rischio, di: 1) popolare il mondo del calcio di tanti finti George Best 2) esaltare oltre misura la categoria del genio e sregolatezza, invece di parlare di un’altra – più banale e dunque più diffusa – locuzione: talento e scelleratezza 3) far rotolare il pallone su terreni astrusi e compiaciuti, come nel caso di Simon Critchley, che nel suo “A cosa pensiamo quando pensiamo al calcio”, mischia la vera verità del gioco con la finta Verità (V rigorosamente maiuscola, sennò mi picchiano) di filosofi molto poco pragmatici come Heidegger o Gadamer.
Il rischio, ma potrei anche dire la certezza, è che un calcio così esagerato, così concettualizzato, così strumentalizzato, così idealizzato perda sempre più il contatto con la realtà e dunque con la sua prerogativa più intima, quella che ancora ce lo fa amare per tutto ciò che di umano e di vivo contiene. Nonostante tutto ma proprio tutto. Critchley, al quale verrebbe da rispondere che quando pensiamo al calcio pensiamo a tutto meno che alla filosofia, insegna a New York ma è inglese, e proprio dall’Inghilterra, da quest’isola europea “a parte” sembrano provenire anche i principali problemi per il progetto elitista-avanguardista di Agnelli e Ceferin; più ostici di quelli stessi scaturiti dal conflitto con una FIFA dove l’arrivo di Infantino sembra aver portato lo scontro con l’Uefa ai massimi livelli (si pensi al VAR, sul quale Ceferin ha dovuto fare una clamorosa marcia indietro, annunciandola ora per febbraio dopo aver detto ai quattro venti che questa Champions non ne avremmo visto neanche l’ombra).
Gianni Infantino: il comandante in capo del calcio mondiale.
L’ostacolo principale all’operazione “Superchampions” si chiama infatti Premiership, torneo che da solo ha incassi di gran lunga superiori a quelli della Champions e che assicura anche a squadre come il Burnley o il Cardiff introiti fissi che per quanto siano la metà di quelli delle due squadre di Manchester, sono più di 80 mln a stagione, quasi il doppio cioè di quanto prendono le nostre Lazio o Fiorentina. I loro stadi sono sempre pieni (meglio, in media, fanno solo quelli tedeschi) e non c’è Paese al mondo che non mostri in tv le loro partite. Il problema, per l’avida e altezzosa locomotiva in azione in quel Paese (i vari Manchester United, Manchester City, Arsenal, Liverpool e Tottenham, per capirsi) sarebbe dunque come staccare i lussuosi vagoni del treno di cui ha sempre fatto parte, vagoni che infatti hanno già minacciato il ricorso alle carte bollate. Al di là di quel che decideranno i club maggiori, non sarà così facile convincere il popolo inglese (da sempre nella storia così moderno ma anche così conservatore) che vedere Watford-Spartak Trnava o Everton-Ludogorets nel tradizionale Saturday sia preferibile a quasiasi West Ham-Newcastle.