Calcio
24 Aprile 2020

Gli slavi e il senso del calcio

Estrosi, litigiosi, naturalmente perdenti.

“Il calcio è il re dei giochi. Per quale motivo? Secondo me, perchè – come la danza – riporta il nostro corpo a quel che si potrebbe definire la preistoria dei nostri movimenti. Nel calcio, vi è assolutamente vietato – se non giocate in porta, beninteso – l’uso delle mani e delle braccia. Insomma, degli organi con cui, abitualmente, eseguite tutti i vostri atti. Organi grazie ai quali ottenete il massimo di precisione, di rendimento e di destrezza. Potete adoperare soltanto piedi e gambe – questi antenati sottosviluppati delle mani e delle braccia. Ed ecco che, non potendo più fare ciò che per voi sarebbe normale o naturale, siete ritornati a funzioni arcaiche. Costretti a riannodare il legame con una memoria animale sepolta dentro di voi”.

 

 

Nel suo “La vita è un pallone rotondo”, Vladimir Dimitrijevic lo intende così il calcio, lui che questo sport lo ha giocato e descritto, prima di dedicarsi al lavoro per cui è giustamente più noto, quello di editore, artefice della diffusione dei classici slavi, dissidenti o non che fossero, da Andrej Belyj fino a Vasilij Grossman, l’autore di “Vita e Destino”.

 

 

Dimitrijevic era nato a Skopje. Oggi, guai a noi, Macedonia. Anzi, Macedonia del nord (sic). Oggi. perché allora, nel 1934, il suo territorio era parte del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, prima di finire dopo la seconda guerra mondiale in quel ribollente calderone chiamato Jugoslavia, che come diceva il generale Tito, forse arrotando anche per difetto, erano sei stati, cinque culture, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un solo partito politico.

 

Vladimir Dimitrijevic: spiritualmente ortodosso, culturalmente slavofilo. Ha raccontato gli slavi e il calcio come nessun'altro
Vladimir Dimitrijevic: spiritualmente ortodosso, culturalmente slavofilo (foto di Hannah Assouline)

 

 

Basta questo e già del calcio slavo si capisce molto. Non tutto, però. Perché manca forse quello che più ce lo ha fatto e in un certo senso ce lo fa ancora amare, fin da quando – personalmente, ovvio – si annunciò con la classe pura e tutta mancina di cui Dragan Dzajic, capitano della cazzutissima Jugoslavia da noi sconfitta solo nella ripetizione di finale europea nel 1968, in tempi in cui la cortina di ferro non faceva sconti, e quando anche li faceva, le deficienze televisive completavano l’opera.

 

 

O con quella, a noi più vicina ma altrettanto cristallina di un altro Dragan, di cognome Stojkovic, il cui flop nel Verona può spiegarsi solo con l’infortunio subito l’anno prima a Marsiglia. Per capire la dimensione del calcio slavo, manca un’altra cosa. Manca ancora l’estro, eredità d’oriente, peculiarità regina di questa parte di mondo ridotta fin dai tempi antichi in un vero e proprio cul de sac (le popolazioni turcomanne a spingere verso occidente, l’impero romano a far blocco), dove gli equilibri hanno sempre ballato che è un piacere.

Estro, litigiosità e grandiosa vocazione alla sconfitta. Continua a consumarsi così, il calcio slavo.

Un po’ come capitava ai marcatori di Prosinecki quando questi era in stato di grazia. Un estro che sinceramente ci ammalierebbe certo di più se non fosse per il malessere che continua a tracimare dai campi perfino durante le partite; o anche prima, come in quell’avvilente Italia-Serbia di dieci anni fa sospesa dopo appena 6 minuti, quando nemmeno Stankovic riuscì a calmare quei simpatici energumeni appollaiatisi sulle balaustre, omologhi balcanici del nostro Genny la carogna, facendo uso delle tre dita a segno della grande Serbia (inopinatamente scambiato dal telecronista di turno -Gentili, mi pare- come il rischio incombente di un 3-0 a tavolino…).

 

 

Estro, litigiosità e grandiosa vocazione alla sconfitta. Continua a consumarsi così, il calcio slavo, sia all’ingrosso che al dettaglio, avvicinato secondo cliché un po’ stantio a quello brasiliano. Perché l’amore per il pallone sarà anche lo stesso, ma non la voglia di divertirsi, costantemente minacciata da un indefinito senso di rivalsa, di storica litigiosità e atavico accanimento. Una miscela tale da vanificare ogni possibile impresa, e da balcanizzare un patrimonio sportivo disperdendolo in tutto il mondo: non c’è praticamente nazione, non c’è squadra che non abbia il suo “slavo” à la Ibrahimovic, più o meno originario.

 

L’assalto di un tifoso serbo ai danni di un giocatore della nazionale albanese durante l’ormai storico incontro di qualificazione agli europei del 2016 tra Serbia e Albania

 

 

“Se solo si applicasse di più…”. La classica risposta da professore scolastico ben s’intona a questa indisciplinata masnada di talenti che molto mi è capitato di amare, per una condizione direi ontologica e culturale prima ancora forse che storica, quella di perdenti nati. In un secolo di storia, collettivamente, sono stati capaci di raccattare poca roba: un terzo e quarto posto ai mondiali di Uruguay ’30 e Cile ’62; due secondi posti ai campionati d’Europa di Francia ’60 e, appunto, Italia ’68; una medaglia d’argento alle olimpiadi di Londra ’48, e un solo successo, quello al mondiale under 20 conquistato in Cile in contro la Germania nell’edizione del 1987.

 

 

La storia della Jugoslavia calcistica arrivava nel 1992, marchiata dall’esclusione dagli europei, e non senza – ancora una volta – risvolti estrosamente paradossali: la vittoria della Danimarca ripescata al suo posto; la conquista, l’anno prima, di quello che resta l’unico trofeo nella massima competizione europea, la coppa dei campioni vinta ai rigori da parte della Stella Rossa, contro il Marsiglia, con quel vaso multietnico di Pandora ormai scoperchiato e preda di barbari risentimenti liberi di sbizzarrirsi a piacimento, tra l’impotenza delle istituzioni europee e l’ottusità di un Vaticano che per primo ebbe l’idea di riconoscere l’indipendenza della Croazia.

 

 

La diaspora slava era già cominciata, inevitabile. Una specie di nuova operazione paper clip dove al posto degli scienziati tedeschi in fuga c’erano i calciatori slavi, in quello degli americani adescatori c’erano i club europei, con i procuratori nel ruolo di collaborazionisti. I croati Sucker e Prosinecki rispettivamente a Siviglia e Real Madrid, i serbi Mihajlovich, Jugovic e Stojkovic a Roma, Sampdoria, i montenegrini Mijatovic e Savicevic a Valencia e in quel Milan dove sbarca anche il croato Boban, mentre al Marsiglia approdano il croato Boksic e il serbo Stojkovic. Chi più chi meno, tutte schegge della gloriosa Stella rossa di Belgrado, in un Paese ormai invaso da dolore, bombe e terrore.

 

Slavi e calcio, letteralmente
Zvone Boban e quel famoso calcio contro un celerino, nel bel mezzo dei tafferugli scoppiati durante il match tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa, datato maggio 1990

 

 

Il conflitto aveva dato la stura, ma qualche squillo dell’est c’era già stato. Il più luminoso di tutti portava il nome di Safet Susic, stella della Jugoslavia malamente eliminata dalla Spagna ai mondiali del 1982. Giocatore dai piedi sopraffini capaci di tutto, attaccante talmente dotato da poter giocare tranquillamente da mezza punta – molto simile anche per questo al nostro Bruno Giordano – Susic era approdato all’allora modesto Paris Saint Germain, previo pasticcio a tre con Torino e Inter, entrambe sicure di averne acquistato il cartellino.

 

 

Rimasto nel cuore di quei tifosi che per palato fine per la verità non hanno mai brillato, resta il dubbio se con la sliding door italiana la sua carriera sarebbe stata pari alle sue immense qualità. In quegli anni, nell’impossibile ruolo di tutor, da noi c’era un altro serbo di prima grandezza: Vujadin Boskov. Rimasto nella memoria più ancora che per il gran lavorio a centrocampo da giocatore, per le arguzie verbali tanto amate da una classe, quella dei giornalisti sportivi, in cui l’arguzia non è mai stato bene di prima mano.

 

 

La sua saggezza più buddista che balcanica, incastonata nell’ormai proverbiale “è rigore quando arbitro fischia” sono ormai installate saldamente nel cuore degli appassionati. Così come nel cuore, di questo mondo ruvido e insieme svolazzante sono rimaste tante altre cose: i missili semi-infallibili su punizione di Mihajlovich, pari per efficacia da quelle distanze solo all’olandese Koeman e al più sofisticato brasiliano “francesizzato” Junihno Pernambucano; l’ispirato dinamismo croato di Modric, i colpi di genio del sopravvalutato Savicevic, in(compiuta) espressione dei gusti estetici berlusconiani (nulla alla platea, tutto alla galleria).

 

La folta chioma di Sinisa Mihajlovic, impegnato a calciare, ai tempi della Stella Rossa

 

 

Le cavalcate estrose di Boksic, meno veloci ma più potenti di quelle disegnate (per lo più dall’altra parte del campo) dall’ambidestro Boniek; il senso dell’eleganza mai fine a se stessa di Jugovic; il funambolo Robert Prosinecki, capace di infiammare gli animi in patria ma assai meno con la maglia del Real Madrid, adesso quasi irriconoscibile sulla panchina della Bosnia; l’aristocratica intelligenza tattica di Boban e quella più operaia ma ben più preziosa di Stankovic, dimostrazione evidente di come un giocatore possa essere utile alla sua squadra a prescindere da ogni vanità personale.

 

 

Estro, litigiosità e vocazione alla sconfitta, appunto. Per nessun calcio vale quel che Kierkegaard constatava per l’uomo, che il peggior nemico è in se stesso. Freudianamente parlando, a gravare sulle spalle dell’ex Jugoslavia è stato il famoso “perturbante”.

 

 

Perché a parte qualche immancabile eccezione – Modric e Stankovic, le più fosforescenti e insieme, sarà anche un caso, le più vincenti – il denominatore comune del precipitato pallonare di questa parte tutta particolare del mondo rimasto finché ha potuto nel dopoguerra in delicatissimo, strategico equilibrio tra i due blocchi (il più occidentale tra i paesi dell’est, il più orientale tra quelli dell’ovest) resta aggrappato all’immaginazione, a quello che avrebbero potuto fare e non hanno mai saputo fare, ai pochi abbaglianti lampi e alle tante troppe delusioni che hanno inflitto a chi ama sì il calcio, ma prima ancora il carattere dei popoli e il carattere della storia, da sempre indifferente a chiunque ne ipotizzi la fine, annacquandola in una globalizzazione senza fantasia e senza sapori.

 

 

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