Colonizzare il calcio con l'Academy.
Il Chelsea, nell’ultimo anno, è stato un prodotto praticamente perfetto. E non sono solo i risultati a sorprendere, dalla Champions League vinta all’attuale primato in Premier, ma ancor di più il modo in cui i blues li hanno ottenuti: con uno stile di gioco ultramoderno, sotto la sapiente guida di Tuchel, e grazie ad un collettivo che si muove come un solo uomo. Oggi sembra che la squadra giochi insieme da una vita, ma siamo sicuri che in parte non sia così? In un interessantissimo articolo sul Guardian Jonathan Liew ha approfondito il modello Chelsea focalizzandosi su un aspetto cruciale: l’academy.
Il club infatti, e lo abbiamo imparato anche con il tabellino della partita contro la Juventus, si è fatto in casa buona parte del suo talento: quest’anno i prodotti del settore giovanile, come riporta Liew, hanno giocato il 27% dei minuti totali della squadra e segnato quasi un terzo dei gol – il tutto senza contare Lukaku, cresciuto nell’academy ma poi ricomprato a peso d’oro. James, Loftus-Cheek, Hudson-Odoi, Chalobah, Mount, Christensen: l’elenco è lungo e di qualità, ma comunque rappresenta solo la punta dell’iceberg. È infatti l’intera Premier League a “risentire” del modello Chelsea.
«Prendete le partite della Premier League dell’ultimo turno. Tutte tranne una includono un ex prodotto dell’academy del Chelsea: Eddie Nketiah all’Arsenal, Tino Livramento e Armando Broja al Southampton, Billy Gilmour al Norwich, Marc Guéhi e Conor Gallagher al Crystal Palace, Bertrand Traoré all’Aston Villa, Tariq Lamptey al Brighton, Nathan Aké al Manchester City e Declan Rice al West Ham, Ryan Bertrand al Leicester, Jack Cork e Jóhann Berg Gudmundsson al Burnley e Lewis Bate al Leeds». Il tutto per arrivare alla conclusione:
«Il Chelsea non ha solo costruito una squadra, ha costruito quella di tutti gli altri. Non si limitano a guidare la Premier League: la stanno colonizzando, trasformandola in un azzurro pallido di Cobham» (centro sportivo in cui si allena la prima squadra e anche l’academy).
Insomma, un autentico patrimonio non solo per il club ma per l’intero calcio inglese: esclusivamente tecnico per gli altri, anche economico per i blues. Nell’ultima finestra di mercato, con le cessioni di Abraham, Tomori, Guéhi e altri, il Chelsea ha incassato infatti oltre 90 milioni di sterline; e tutti reali, alla faccia delle plusvalenze e della finanza creativa a cui siamo tristemente abituati qui in Italia.
Eppure, scrive Liew, «per anni l’approccio del Chelsea all’Academy è stato simile a quello dello speculatore immobiliare londinese con un vasto portafoglio di appartamenti di lusso in cui non ha intenzione di vivere mai». In questo modo introduce un tema enorme, quello della pazienza e della visione, non risparmiando bordate alla gestione di Maurizio Sarri. Se infatti Antonio Conte vinse per necessità un titolo con 13 giocatori, quelli della prima squadra sostanzialmente, con Sarri le cose potevano andare diversamente:
«Qui nella stagione con Sarri non ha esordito un solo giocatore del settore giovanile. In una riunione con il direttore tecnico, Michael Emenalo, ha sostenuto che il club avrebbe dovuto annullare o ridimensionare la sua accademia perché costava troppo e non produceva alcun beneficio tangibile per la prima squadra».
La svolta, al contrario, è arrivata nel 2019 con Lampard: uno a cui non sempre hanno arriso i risultati, ma che ha lavorato nell’interesse esclusivo del Chelsea. Continua Liew: «Il predecessore di Lampard, Sarri, si era appena preso la briga di nascondere la sua mancanza di interesse per l’accademia, non riuscendo a partecipare a una singola sessione di allenamento o ad una partita under 23. Con Lampard (…) Mason Mount, Fikayo Tomori e Tammy Abraham sono stati portati in prima linea: giocando e occasionalmente sbagliando, ma soprattutto imparando nei momenti caldi delle partite più importanti».
Da lì un grande allenatore come Tuchel si è trovato già una base importante, e dei calciatori fatti e finiti da poter utilizzare o rivendere per fare cassa. Ecco da dove arrivano (anche) i successi del Chelsea: dalla rivoluzione di Cobham. Da qui saltano fuori James, Chalobah, Hudson-Odoi e gli altri, sconosciuti a molti (almeno da noi) prima del match con la Juventus: spesso sottovalutati, anche nei giudizi della stampa internazionale così concentrata sui top players, in realtà risorse inestimabili per il club. Tutto questo, infine, dimostra però un’altra cosa: pure nel calcio contemporaneo, che ha così tanta fretta, c’è spazio per un lavoro di programmazione a medio-lungo termine; anzi, soprattutto nel calcio contemporaneo.
In un periodo in cui è sempre più difficile far quadrare i bilanci, il settore giovanile è il fondamento della sostenibilità (e perché no, del successo) di un club. La base solida di tutto l’edificio. Certo servono investimenti e pazienza, e magari per qualche anno è necessario accettare una fisiologica altalena di risultati, ma ad oggi questa è l’unica ricetta concreta che esista: produrre in casa il talento. In Italia lo sta facendo meglio di tutti l’Atalanta, più che altro poi rivendendo i suoi prodotti per far quadrare i conti, ma lì si apre un ventaglio di possibilità: i prestiti per far crescere o l’esordio in prima squadra, e poi la valorizzazione o la cessione diretta (magari anche con un diritto di recompra, come ha fatto il Chelsea con Abraham).
Insomma, abbiamo vissuto un po’ tutti al di sopra delle nostre possibilità. Ma invece di indebitarci fino al collo e pescare parametri zero in giro per il mondo – coprendo di soldi calciatori e procuratori – non sarebbe meglio investire 20-30-50 milioni sui settore giovanili? Non si tratta di utopia, anzi: ad oggi, con ogni probabilità, è l’unica opzione che ci resta per non soccombere domani.