La deriva fantacalcistica ci porta in un mondo distopico, in cui i numeri dettano la legge della mente e del cuore.
Impiego meno di un minuto ad apparecchiare il mio tavolino riservato con la consueta tovaglia rosa del sabato mattina. Una volta aperta, la pagina del giornale dedicata alle probabili formazioni sembra pulsare, impaziente com’è di essere invasa da quadernoni, penne e smartphone. L’accontento senza esitazioni, quindi mi siedo. All’appello mancano ormai solo il bicchiere d’acqua e il caffè, ritardatari giustificati che la cameriera di lì a poco adagia sulla Rosea, avendo cura di scegliere come pista d’atterraggio la sezione dedicata alla pubblicità e garantendosi già solo per questa accortezza una lauta mancia. Adesso ho davvero tutto ciò che mi serve per affrontare il momento più importante della settimana: lo studio della formazione. La circostanza impone tutta la concentrazione di cui sono capace e che non fatico a trovare, riuscendo in pochi secondi ad estraniarmi da tutto ciò che mi circonda.
.
Ma proprio mentre mi accingo a contrassegnare con un asterisco rosso i calciatori che privilegerò nella scelta finale, ovvero quelli che giocano in casa, le mie orecchie vengono raggiunte da un’appassionante discussione in materia calcistica che è in corso a un tavolino alle mie spalle, all’estremità del bar. Impegnato come sono non posso permettermi di voltarmi, tuttavia non ne ho bisogno per capire che le persone coinvolte nel dibattito non sono di mia conoscenza. Almeno formalmente. Perché in base alle parole captate e alla inamovibilità dei loro punti di vista riesco a comprendere con assoluta certezza che si tratta di tre ragazzi, segnatamente uno juventino, un romanista e un napoletano.
E avere accesso alla fede calcistica di una persona significa conoscerla più di quanto non si pensi: involontariamente ti regala un bel po’ del suo passato, e in linea di massima puoi coglierne punti di forza e debolezze, con prevalenza di quest’ultime. Una quindicina di anni fa non mi sarei fatto problemi ad intervenire nella discussione in prima persona, ma, come detto, lo studio cui sono chiamato richiede grande concentrazione. Perciò decido di restare chino sul quadernone accennando una prima bozza di undici titolare, cedendo però allo stesso tempo alla curiosità di ascoltare il confronto.
.
Alla stregua di un network sportivo i tre calciofili partono dalla stretta attualità: il ritiro di Andrea Pirlo dal calcio giocato. I commenti sull’ormai ex centrocampista bresciano sono pressoché unanimi. Così come è unanime l’incompetenza esibita. Questa è la prima percezione da cui vengo raggiunto. Annebbiati dal mondiale tedesco, dalle Champions League, dagli scudetti, dalla visione di gioco, dai cucchiai e dalla “maledetta”, gli origliati mostrano grande eccitazione nel considerare Pirlo il miglior centrocampista italiano di tutti i tempi. A questo punto la mia mano viene colta da una sorta di paralisi. Interrompo lo schieramento della formazione perché vorrei tanto voltarmi e dir loro che in Serie A ha giocato un centrocampista molto più forte di Pirlo: Cristiano Doni.
E che non sono io a dirlo, bensì i numeri: nella sola stagione 2001-‘02, ad esempio, Doni con l’Atalanta ha segnato lo stesso numero di reti (16) messe insieme da Pirlo nei quattro anni in bianconero. Lo ricordo benissimo, anche perché grazie alle sue prodezze vinsi un fantacalcio. Non intervengo perché altrimenti loro controbatterebbero sulla questione del ruolo, ne sono sicuro. I professoroni mi direbbero che Pirlo era un centrocampista centrale mentre Doni un trequartista al limite della seconda punta. Quanta ignoranza! Lo sanno tutti che è il listone della Gazzetta a stabilire con certezza i ruoli dei giocatori, e Pirlo e Doni fino a prova contraria sono sempre stati inseriti tra i centrocampisti. Perciò un paragone tra i due non solo è possibile, ma è addirittura impietoso nei confronti del pur bravo Andrea.
Comunque sia, il ricordo di quella cavalcata fantacalcistica ha l’effetto di calmarmi. Per cui riprendo la stesura della formazione e soprattutto continuo ad ascoltare i tre esperti. Che seguitano a parlare di Del Piero, il quale ha compiuto gli anni pochi giorni fa. L’introduzione di tale argomento è confessoria. E’ a questo punto che apprendo della fede calcistica dei tre amici. Perché se Pirlo incontra un gradimento universale non essendosi mai legato sentimentalmente a una squadra in particolare, parlare di Del Piero significa mettere sul tavolo della discussione il cuore.
Così, il suggeritore del tema, il tifoso juventino, inizia a snocciolare tutte le innumerevoli virtù tecniche e morali dell’ex numero dieci bianconero. Non lo dice apertamente, ma è evidente che lo consideri il più grande calciatore della storia. Di fatto, a colpi di retorica e nostalgia, provoca gli altri due. Che dopo i timidi apprezzamenti di circostanza non possono più sottostare a quella liturgia dell’amore che non li riguarda. La vedono come un’imposizione. E allora quasi simultaneamente rompono gli indugi e mettono in campo la loro, di fede. Il romanista parlando di Totti e il napoletano di Maradona. La comparsa della passione devia il confronto dai binari della conversazione per portarlo su quelli del monologo. Per la precisione tre monologhi.
Ne esce fuori una sorta di competizione, in cui ogni tifoso, parlando del proprio idolo, tende ad affermarne la superiorità. Emotiva e tecnica. L’unanimità se n’è andata già da un pezzo, resta solo l’incompetenza. Perché in tutto quel farneticare nessuno si degna di citare Di Natale. Qualche riferimento a Dybala, Mertens, El Shaarawy viene fatto. Ma all’ex udinese mai. Eppure Di Natale è stato un calciatore palesemente superiore a tutti. Basta vedere cosa ha combinato dal 2009 al 2014: qualcosa come 120 gol. Al solo pensiero di tutti i fantacalci che mi ha fatto vincere la mia schiena viene percorsa da un brivido.
Tuttavia stavolta non sono tentato di girarmi e dirgliene quattro. Anzi. In fondo ho grande rispetto per la condizione del tifoso. Comprendo perfettamente che il loro fanatismo li esclude dall’obiettività. Perché anch’io cedevo a queste debolezze vent’anni fa. Ma fu proprio il fantacalcio a salvarmi, offrendomi una chiave di lettura finalmente obiettiva del calcio. All’inizio ero un disastro, devo riconoscerlo. Acquistavo prevalentemente i giocatori della mia squadra del cuore, il Napoli, e non schieravo mai quelli che ci giocavano contro, Ronaldo o Batistuta che si chiamassero. Ma poi ho cominciato a farlo.
In un primo momento la prendevo come un paracadute filosofico: se perde la mia squadra, magari vinco al fantacalcio. Successivamente quel sorriso amaro a poco a poco ha iniziato a trasformarsi in puro godimento. Sì, ero proprio felice quando la “mia” squadra subiva i gol dai “miei” giocatori. Anche se la maturità definitiva è da attribuire a un altro passaggio. Smisi di vedere esclusivamente le partite del Napoli consegnandomi a Diretta Gol, l’unico programma che ti consente di cogliere il calcio nella sua totalità, esperienza emozionalmente superiore anche allo stadio: mi si aprì un mondo fin lì sconosciuto. Compresi che era uno spreco dedicare novanta minuti del mio tempo a una squadra sola.
E poi vuoi mettere lo spettacolo di passare da un campo all’altro e non perdersi nemmeno un’esultanza? E’ come diventare tifosi di tutti, tifosi del calcio. Con l’ulteriore vantaggio di acquisire la competenza di chi ha uno sguardo d’insieme. Ma queste cose i tre tenori là dietro non possono capirle. Ci vorrà del tempo. Adesso sono troppo presi a magnificare, a voce alta, il tiro a giro contro il Dortmund, il sinistro al volo contro la Sampdoria e lo slalom contro l’Inghilterra, ignorando completamente il reale valore di quelle prodezze: un banalissimo +3.
Sono le 12 passate. Il mio 3-4-3 con ben otto giocatori su undici che giocano in casa mi soddisfa, e salvo defezioni dell’ultimo momento non lo modificherò. Con estrema cura ripongo nella borsa tutti gli attrezzi del mestiere, lascio cinque euro sul tavolino e con passo spedito guadagno l’uscita del bar per dirigermi verso casa. Tra mezz’ora su SkySport24 c’è un collegamento da Castel Volturno. Finalmente si saprà se Mertens ha recuperato o meno. Spero proprio di no: ce l’ha il mio avversario.
Il costo dei biglietti cresce a tassi doppi rispetto quello degli stipendi o del costo della vita. Anatomia di un problema che attanaglia il calcio moderno.