Il rito è simbolo e mito, tramanda azioni ataviche e rappresenta i codici fondativi di una civiltà: Byung Chul Han ci suggerisce la sua capacità di creare «una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità». Così Carlo Magno, padre d’Europa, celebra la vittoria sui Sassoni con una tradizionale battuta di caccia nelle Ardenne (odierno Lussemburgo), fulcro della devozione a Sant’Uberto di Liegi, patrono dei cacciatori. Nobile merovingio, durante una battuta Uberto scorse tra i palchi di un cervo un simbolo maestoso e ineludibile, una croce che lo fece trasalire fino all’estasi:
era un venerdì santo, decise di farsi waldgänger, attraversare il bosco della sacertà e divenire sacerdote eppoi vescovo, fino alla santità.
La dimensione ancestrale del rito e quella verticale del sacro sono certo ostracizzate, destinate alla decadenza nell’epoca dell’Antropocene, in cui individualismo e culto del consumo hanno svilito la tradizione a ricorrenza, la comunità a community e il rispetto della natura ad ecologismo di tendenza. Tali (dis)valori fanno sì che la nostra epoca fatichi a comprendere i fondamenti stessi della tradizione venatoria, ben definita nella sua essenza da Dominique Venner come un’arte che, «vissuta secondo le regole, rappresenta il primo rito primordiale per sottrarsi alle deturpazioni e manipolazioni della modernità razionale e scientifica».
A rinverdire con dovizia di particolari i principi etico-antropologici della caccia è Nicola Sgueo nel saggio ‘Ars Venandi’, un agile libello edito da Passaggio al Bosco (pp. 114, 15€). Già le testimonianze rupestri, d’altronde, ci consentono di tenere a memoria gli usi e i rituali legati alla caccia fin dalla preistoria: essa ha principio, nei caratteri in cui l’intendiamo oggi, con l’Homo Sapiens, e attraversa l’intera vicenda umana. Diviene rito di iniziazione presso i Greci, nobile attività ricreativa e addirittura arte liberale a Roma; il Medioevo è un periodo florido (anche) per ciò che riguarda l’arte venatoria: Celti e Germani sono i precursori e della visione etica («una lepre, ad esempio, non si uccideva se rinunciava alla fuga») e del senso di comunità legato a tale pratica.
Tra XIII e XIV secolo compaiono polveriere e quindi balestre, Schnepper e archibugi, strumenti alla base del medioevo venatorio. La caccia, piacere cortigiano ma anche, simbolicamente, preludium belli (da Senofonte a Machiavelli), mantiene i suoi caratteri pressoché inviolati fino alla Rivoluzione Francese, quando una certa pietas (pietismo?) di derivazione illuministica va mutando la sensibilità, anticipando e rafforzando alcune visioni critiche che vanno acquisendo progressivamente rilievo.
Difatti, la questione principale che attanaglia oggi la caccia è la sua bieca equiparazione al bracconaggio, come se le due pratiche siano connaturali e inscindibili.
La caccia ne rappresenta in realtà l’opposto virtuoso, essendo un’attività – nei fatti e nei principi – del tutto eco-logica, con una significativa funzione equilibratrice della biodiversità e della gestione faunistica. «Grazie agli inestimabili sforzi di così tanti cacciatori – ha infatti affermato Torbjorn Larsson, presidente della Face (Federazione Europea delle Associazioni Venatorie) – abbiamo solide prove per dimostrare nella pratica come i cacciatori stiano attuando con successo la strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030 e diano un contributo cruciale al ripristino degli habitat, delle aree protette, col monitoraggio delle specie selvatiche e molto altro ancora».
Questo perché la caccia, quella vera e tradizionalmente intesa, è coessenziale alla misura e al senso logico del limite, valori consustanziali alla cultura greca, progenitrice e fondamento della nostra: non a caso, quando nell’Odissea i compagni di Ulisse giungono nell’isola dei Ciclopi e, peccando di hybris, si comportano ferocemente nei confronti delle capre che vi trovano, essi soccombono trattati alla medesima maniera da Polifemo. Sentimento di nobile e cristiana medietas ispira anche le parole di don Markus Moling, ordinario di filosofia e sacerdote, ornitologo per passione, che suggerisce la via di un antropocentrismo illuminato, per cui
«se la caccia viene vissuta come un’espressione di responsabilità e non di sfruttamento verso le specie che vengono cacciate […] può far parte di un concetto integrale che unisce la salvaguardia della natura con un uso sostenibile delle sue risorse», in quanto, prosegue, «il primo compito del cacciatore è quello di essere custode degli animali selvatici e del loro ambiente». Tutto ciò a dimostrare emblematicamente che soltanto ad un ethos nobile risponde quel tipo di arte venatoria che, nelle parole di Ortega y Gasset, consiste in
«più altra e più delicata cosa che […] disinfestare o distruggere con un procedimento incontrastabile e automatico gli animali».
A rimarcare la differenza tra pratica venatoria e squallido bracconaggio è anche Giorgio Gramignani, cacciatore, naturista ed ecologo, per cui «sempre la bellezza ed il pathos che emana dagli scenari naturistici tra vette e valli, boschi e paludi […] inducono ad una spontanea ammirazione che educa e conduce al rispetto e alla difesa di quel mondo»: la caccia più nobile, segue, riconduce l’uomo «alle radici della vita, […] ai valori di quella serena filosofia, propria degli esseri che vivono secondo i cicli ed i ritmi della natura, per cui tutto, dal nascere, al vivere, al morire, è sempre naturalmente semplice, naturalmente logico, naturalmente naturale».
Il problema è che, nella stragrande maggioranza dei casi, chi si scaglia contro la caccia non ha la minima idea di ciò di cui sta parlando. Del suo valore etico e profondamente umano, nel senso etimologico del termine; della sua storia e funzione ecologica e riequilibratice. Quella contro la caccia diventa così una battaglia di principio ed ideologica, ultra-cerebrale e strutturalmente metropolitana – che nelle campagne e montagne del nostro Paese è chiaro a tanti quanto la caccia possa essere, e anzi sia, profondamente sostenibile.
Nulla di cui sorprendersi, d’altronde. Una simile sensibilità rispecchia la mutazione antropologica delle nostre società, la quale, di pari passo con gli strali di denuncia all’arte venatoria, fa sì che aumenti la rilevanza degli animali domestici nella quotidianità degli individui, e di conseguenza la beneamata “pet economy”: è l’indice di una grave ed esclusiva predilezione dell’uomo contemporaneo per ciò che può essere reificato, oggettivato e antropizzato. Per ciò che può essere addomesticato e interpretato solo in sua funzione.
Una deriva pet friendly che rende persino velleitaria la pretesa di una coscienza che possa dirsi pienamente ecologica; figlio di “una morale compassionevole estranea alla natura”, l’uomo si conferma antiquato: scade nel paradosso per cui, tentando di elevare gli animali alla condizione umana, va inconsapevolmente degradando la propria. A Venner fa eco Drieu La Rochelle, ad insegnarci che l’estrema civiltà genera l’estrema barbarie. Sant’Uberto di Liegi, libera nos a malo. E continua a proteggere i cacciatori, come hai sempre fatto. Quelli veri, s’intende.
In copertina la ‘Visione di S. Uberto’ (1615-30), Peter Paul Rubens e Jan Brueghel il Vecchio. Museo del Prado, Madrid