La Colombia degli anni novanta, Usa '94 e Andrès Escobar. «La vida no termina aquì».
Ci sono casi in cui l’osmosi che viene a crearsi tra la società civile e lo sport può divenire dannatamente viscerale; una compenetrazione tra popolo e passione che, se intossicata dai veleni di anni di guerriglia e barricate, può macchiarsi della più terribile delle efferatezze, l’omicidio. È questo il caso di Andrés Escobar, lo storico leader difensivo dei cafeteros che, in una sciagurata notte del luglio 1994, a Medellin – sua città natale – trovò la morte incrociando la traiettoria di sei colpi esplosi nel parcheggio della discoteca nella quale Escobar si era recato per esorcizzare i fantasmi di Usa ’94. Già, perché alla base dell’alterco risoltosi con la morte di Andrés, vi era un autogol, o meglio, quello che per i colombiani era e resterà per molti anni ancora “l’autogol” di un intero popolo.
In quella stessa estate si era da poco concluso il torneo made in Usa, kermesse alla quale i Verdolagas del PachoMaturana – l’allenatore che più di ogni altro ha cambiato il modo d’intendere il calcio dei caribe – arrivavano con non ben poche aspettative; basti pensare che, durante le qualificazioni per il mondiale Yankee, los cafeteros, ispirati dall’estro dell’istrionico, quanto iconico, Carlos El Pibe Valderrama, inflissero un roboante 0-5 in casa dell’Argentina, per più in quella che è la cattedrale del calcio albiceleste, el Monumental: un’impresa sì straordinaria che il nobel per la letteratura, Gabriel Garcia Marquez, lo inserì di diritto tra i “tre grandi avvenimenti del Novecento colombiano”.
Tuttavia le oppressive attese che pesavano sulla selección del Pacho non rappresentarono le uniche grane dello spogliatoio colombiano, che, così come accadeva a Bogotà, era costretto a fare i conti con le minacce avanzate dai cartelli della droga. Emblematico a tal proposito l’episodio dell’intimidatorio fax anonimo fatto recapitare presso l’hotel di Fullerton – casa base della spedizione cafetera durante il mondiale – che, come sostenuto a posteriori da diverse testate colombiane, sarebbe stato un chiaro segnale di quanto sarebbe poi accaduto ad Andrés. Il telegramma così recitava:
«Se Gomez gioca faremo saltare in aria la sua casa e quella del ct Maturana».
Si trattava di Gabriel Gomez, ovvero il centromediano – nonché fratello di Hernan Dario El Bolillo Gomez, assistente del ct Maturana (stigmatizzato dalla critica colombiana in quanto principale responsabile della debàcle contro la Romania nella gara inaugurale della competizione, terminata con un netto 3-1). Come prevedibile, Gomez non prese parte alla “fatal partita”, quella che si sarebbe giocata il giorno seguente contro i padroni di casa, gli Stati Uniti. Se è vero che il movimento calcistico di un Paese rispecchia in parte gli umori della sua gente, il futbòl cafetero degli anni Novanta, o meglio il clima rovente che si respirava attorno ad esso, ben rendeva l’idea del delirio colombiano. Un Paese dilaniato dalle continue guerriglie urbane che, nonostante i diversi tentativi di dialogo (vedi gli Accordi di Uribe del 1984), continuavano a imperversare tra le FARC (così come l’ELN) e lo Stato centrale.
Inoltre, vi era – e vi è tuttora – l’atavico problematica relativo alla smercio della cocaina, i cui ricavi milionari finirono per sostanziare la leggenda de El PatrónPablo Escobar, il re del narcotraffico latino. I copiosi denari provenienti da ogni latitudine rimpinguarono così anche le casse delle squadre colombiane, su tutte, quelle dell’Atletico Nacional (club per il quale Pablo nutriva nient’altro che leggera simpatia) i cui colori bianco verdi, ironia della sorte, erano gli stessi che, con fierezza, vestiva el caballero de las Canchas, Andrés. Ma torniamo all’autogol fataledi Pasadena: quel pomeriggio la selección di Maturana, nonostante il clima che eufemisticamente potremmo definire teso, si trovò dinanzi gli Yanks, niente di più di un gruppo di buoni atleti tarantolati dal calore del tifo amico.
Tuttavia nonostante la superiorità tecnica dei sudamericani, la tensione aveva ormai inibito il potenziale degli uomini di Maturana: la partita terminò infatti con un 2-1 per gli States, un’umiliazione che, nell’immaginario colombiano, presto si tradusse nel gesto plastico del “2” in maglia gialla, la scivolata di Andrés. Un intervento, quello occorso al 34′, volto ad intercettare un cross di Harkes ma che di fatto significò l’1 a 0 per gli Usa. Fu l’inizio dell’icubo: un harakiri che ben presto travalicò il rettangolo di gioco.
Quella di Pasadena sarà l’ultima gara di Escobar con la maglia della selección. «La vida no termina aquì». Questo il messaggio lanciato da Andrés sulle pagine de El Tiempo all’indomani della cocente eliminazione mondiale, nel tentativo di sgravarsi di dosso le responsabilità addossategli dal popolo del futbol patrio. Bisogna dunque voltar pagina al più presto: Andrés, la sera del 2 luglio, decide di andare a svagarsi a El Indio, uno dei locali di tendenza di Medellin. L’aria in città però da qualche mese non era più la stessa, a causa del vuoto di potere originatosi in seguito alla scomparsa del ben più celebre Escobar, Pablo.
Una situazione della quale cercarono di approfittare alcune tra le famiglie medellinensi legate al narcotraffico; tra queste vi erano i Gallon Henao, alcuni dei quali si trovavano proprio a El Indio la sera del 2 Luglio. Riconobbero Andrès e iniziarono ad apostrofarlo, a schernirlo, a umiliarlo, rievocando i fantasmi di Los Angeles. Dagli insulti si passò ai colpi di pistola: Humberto Munoz Castro, uno dei guardaspalle degli Henao, vuotò con la freddezza propria dell’assurdità un intero caricatore nell’abitacolo della vettura di Andrés. Inutile la corsa in ospedale.
Un gesto folle, senz’altro facilitato dai fumi della droga. Un atto privo di senno ma che tuttavia trova una sua giustificazione in un grido rancoroso, quel “Goooool!” che, squarciando la notte di Medellin, i testimoni dissero di aver sentito pronunciare dallo stesso Munoz mentre compiva l’esecuzione. Versione non confermata dal sodale degli Henao, che affermerà di non aver mai conosciuto né tanto meno riconosciuto il calciatore. Tante le ipotesi sul perché di tale gesto: la più accreditata parla di un omicidio dettato dalla rabbia, quella del cartello di Calì che, proprio a causa dell’eliminazione della Colombia, avrebbe perso un’ingente quantità di capitali scommessi sul passaggio del girone.
Ciò che è certo è che Andrés, quella fatidica sera, ebbe la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato e nel momento storico sbagliato; la situazione nella Colombia di quegli anni era radicalmente fuori controllo, fino a renderla un luogo dove dover convivere con la morte per strada. Di tutta questa sconcertante storia rimangono oggi i 120.000 colombiani presenti al funerale del Caballero de las Canchas, svolto sotto gli occhi fermi dell’allora Presidente Cesar Gaviria Trujillo e quelli, bagnati dal dolore, di un esterrefatto Maturana che volle ricordare così il suo fido Andrés:
“Per tutti ha pagato il più bravo, semplicemente il più bravo. Quello che per doti umane e calcistiche era destinato a essere per sempre un modello per questo Paese”.
Traslitterazione dell'intervista condotta da Giorgio Porrà ad Adriano Sofri all'interno del carcere pisano “Don Bosco”, dove l'ex leader di Lotta continua ha trascorso - tra permessi straordinari e sconti di pena - quindici anni di detenzione.
Il denaro ha ormai definitivamente subordinato a sé il talento, comportando una sempre più tangibile polarizzazione tra club di prima e seconda fascia.