Altri Sport
04 Settembre 2019

Egan Bernal, l'ultimo degli eroi di Colombia

Un sogno che ha radici lontane e profonde.

Quando Flor Gomez fa visita al fidato dottor Josè Bulla, pensa di essere affetta da una di quelle infezioni intestinali che debilitano il corpo creando un perenne e fastidioso stato nauseabondo. Non appena il dottor Bulla le tocca il ventre sentenzia: «Sei incinta di un mese». Allo stupore del primo istante, segue una gioia smisurata. «Dovremo pensare al nome», suggerisce al marito German Bernal, uno dei guardiani della maestosa Cattedrale del Sale, a Zipaquirá, 42 chilometri da Bogotà, nel cuore della Colombia. «Ho un nome bellissimo: Egan!», suggerisce il dottor Bulla con lo sguardo saccente e illuminante. «In greco credo voglia dire “campione”, chiamatelo così. E lasciatemi essere il padrino». A Flor e German quel nome non piace poi così tanto. Acconsentono soltanto per non dare un dispiacere al fidato medico di famiglia. Eppure il nome Egan racchiude qualcosa di mitologico: un dio del fuoco appartenente a una civiltà lontana. «Sì, lo chiameremo Egan».

 

Egan nasce otto mesi dopo quella visita raccontata dal quotidiano colombiano El Espectador. Nei primi giorni del 1997, il 13 gennaio. Lo stesso in cui, 27 anni prima, è nato Marco Pantani, che in Colombia avrebbe conquistato il cuore delle folle per il suo spirito, la sua generosità, il suo modo di correre così spettacolare ed emozionante. Il Pirata avrebbe impersonificato l’animo e la filosofia dei colombiani, se non fosse per quel macigno che portava nell’animo. Forse è scritto nel destino che il 13 gennaio sia riservato agli angeli. Quelli della montagna.

 

Il piccolo Egan cresce circondato dalle premure di German e Flor. A cinque anni la prima volta in bicicletta. È pesante e gialla, manco a dirlo. Un giorno, all’età di nove anni, mentre passeggia per strada con i genitori, vede un gruppo di bambini con caschi e biciclette al seguito. Sta per iniziare una gara riservata a giovani speranze. I suoi, però, non hanno i soldi per l’iscrizione. Ci pensa César Bermúdez, un amico di famiglia. Egan, il dio del fuoco, vince facilmente. Riceve come premio un completino, un trofeo e una borsa di studio. Decide di fare il ciclista. Ci riuscirà. Sappiamo benissimo come.

 

Il giovane Egan

 

A 16 anni, dopo essersi messo in luce in mountain bike, sembra optare per il giornalismo. Ad Egan piace raccontare belle storie. La politica e l’economia lo affascinano quasi più che la bicicletta. Si iscrive all’Università di La Sabana, corso di laurea in comunicazione sociale e giornalismo. «Ho preso una decisione: lascio il ciclismo», confessa a Pablo Mazuera, suo mentore e primo investitore sul talento ciclistico del giovane Egan. Mazuera non ci sta e gli concede un altro anno: «Continua ad allenarti, così capirai che il ciclismo è la tua strada. Se così non sarà, pagherò di tasca mia l’intera retta annuale per il college». Mica male. Bernal si lascia convincere.

 

Un anno più tardi, il giovane prodigio conquista la medaglia d’argento ai campionati mondiali Juniores di MTB. Pablo Mazuera sembra averci visto lungo. Il suo “pupillo” è nato per il ciclismo. Il suo corpo, le sue gambe, i suoi polmoni, sembrano fatti apposta per patire in bicicletta. Il passaggio su strada è opera di Gianni Savio, che lo porta in Italia per correre con la sua Androni. Egan si trasferisce in Piemonte, nel Canavese. Dall’approdo nel ciclismo professionistico alla vittoria del Tour de France il passo è breve. Chissà se proprio lui, il dio del fuoco con la passione per il giornalismo, avrebbe mai pensato di scrivere una storia come questa. Quel ragazzo con la faccia da bambino cresciuto nel cuore delle Ande è diventato il primo sudamericano a vincere il Tour de France. Ci è riuscito a soli 22 anni, primato assoluto dal secondo dopoguerra. Per trovare un vincitore più giovane di Bernal, bisogna risalire al 1909, quando si impose il poco più che 22enne François Faber, corridore lussemburghese scomparso sei anni più tardi durante la battaglia dell’Artois, nel corso della Prima Guerra Mondiale.

 

Dietro il volto innocente, numeri che sintetizzano il cammino di un predestinato. Ma le cifre fanno parte della cronaca, quella di Bernal è una storia che va raccontata con parole semplici. Come gli abbracci sugli Champs-Elysee al fratellino Ronald e alla fidanzata Xiomena. Bisogna partire da quei momenti per entrare a pieno nel Bernal-pensiero. Il discorso sul podio in quattro lingue diverse testimonia il lungo, ma al tempo stesso breve, viaggio che ha dovuto affrontare per arrivare sino all’olimpo del ciclismo. Un discreto inglese per ringraziare il Team Ineos, quello che secondo molti forgiava robot e non campioni. Qualche frase in italiano per salutare il paese che lo ha accolto ciclisticamente e lo ha reso «un po’ italiano». Un commosso saluto alla nazione colombiana in lingua madre per averlo supportato lungo tre settimane dure ed intense. Infine, un francese stentato per omaggiare la gente che lo ha visto salire i gradini della gloria.

 

Don German e Xiomena: tutta la gioia del padre e della fidanzata del campione venuto da lontano

 

Mamma Flor trattiene a stento le lacrime. Don German racchiude un’espressione di stupore mista a soddisfazione. Xiomena si presta ad autografi e selfie perché avvicinare Egan è diventato impossibile. Sui maxi schermo ai bordi dei Campi Elisi scorre il film della Grande Boucle 2019, la numero 106 della storia. Spunta Eddy Merckx che veste di giallo Mike Teunissen, vincitore a sorpresa della prima tappa a Bruxelles; poi è il turno di Giulio Ciccone, poi quello di Julian Alaphilippe. Il francese è battuto ma non sconfitto. È l’altro volto nuovo del Tour. Sui titoli di coda arriva il finale che non ti aspetti. C’è l’Iseran, lo spettro, il gigante, la montagna che tuona. E poi c’è lui, lo scalatore venuto da lontano che uccide la corsa con dolcezza disarmante. Una pedalata armonica e leggera. Come un angelo diretto verso il cielo.

 

La strada verso la leggenda parte dalla lontana Colombia, a Zipaquirá, e si incrocia con quella del Premio Nobel Gabriel García Márquez. Zipaquirá è la città che ha visto sbocciare il talento letterario di Gabo sotto la egida del maestro Don Carlos Julio Calderón Hermida. Il giovane scrittore arriva nella cittadina del Cundinamarca nel 1943 lasciandosi alle spalle la magica atmosfera dei Caraibi. Il viaggio verso il suo sogno ha inizio dal porto di Barranquilla e dal David Arango, un battello a vapore che percorre il fiume Magdalena in direzione Bogotà, e che raccoglie la maggior parte dei giovani caraibici intenti a proseguire gli studi nella capitale. Lungo il tragitto, García Márquez incontra per caso un passeggero, che si rivela essere il direttore delle borse di studio del Colegio San Bartolomé, uno dei più importanti di Bogotá. È proprio lui a scoprire il talento di Gabito dopo avergli fatto trascrivere alcune lettere del bolero, delle quali il giovane fornisce addirittura alcuni trucchi per l’interpretazione. Dopo avergli regalato un libro di Dostoevskij come premio, suggerisce a Gabo di completare gli studi al Liceo Nazionale di Varones de Zipaquirá. García Márquez arriva nella città di Bernal l’otto marzo 1943, due giorni dopo il suo sedicesimo compleanno, per rimanerci fino al 1946, quando si diploma in “poeta, oratore e scrittore”.

 

Grazie agli studi nel liceo di Zipaquirà, e agli insegnamenti del maestro Calderón Hermida, lo scrittore integra il proprio stile “magico”, tipicamente caraibico, con un senso di nostalgia e solitudine che si cela dietro la permanenza nella cittadina del Cundinamarca. Dasso Saldivar, uno dei biografi di García Márquez, ha sottolineato, nel suo lavoro “Il viaggio verso il seme”, l’importanza del Liceo Nacional de Varones nella vita e nella storia dello scrittore: «García Márquez non sarebbe stato lo scrittore che è, senza Zipaquirá».
Il talento che lo condurrà al Nobel sboccia in un ex convento convertito a scuola letteraria comunista e non credente. È un villaggio addormentato, Zipaquirà. «Non c’erano più distrazioni se non studiare», ricorderà anni avanti lo stesso García Márquez.

 

Semplicemente Gabo

 

Oggi, in quella città fredda e addormentata, sorge il Centro Culturale “Casa del Nobel Gabriel García Márquez”. La Nobel House è un centro di formazione artistica e culturale. «Abbiamo scuole di teatro, musica, arti popolari, effetti visivi e percussioni. Da noi studiano circa 1500 giovani provenienti da diversi quartieri», sottolinea soddisfatto il vicedirettore Luis Enrique Rojas. È l’omaggio dello scrittore ai luoghi che lo hanno visto crescere. Ad un popolo fiero ed accogliente, che cade spesso, e rovinosamente, sulle proprie certezze.

 

La Colombia di Gabo è diventata quella di Egan Bernal. L’urlo di gioia nella notte di Stoccolma del 1982 riecheggia sino al tramonto sui Campi Elisi di un pomeriggio di mezza estate di 37 anni dopo. È grido di felicità, stupore, liberazione, riscatto. Un messaggio lanciato dalla città che poco offre, se non i propri sogni. Studiare per Gabo, pedalare per Egan. Ci è riuscita Zipaquirà, ci è riuscita la Colombia.

 

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