Una speranza per aumentare i ricavi, l'immenso mercato, i capitali in Europa: il Celeste Impero è un miraggio per tutto il calcio globale. Ma qual è lo stato dell'arte? Un'opinione.
Alla fermata della metro di Changshu Lu, distretto di Xúhuì, ogni lunedì mattina, od ogni giovedì successivo ad una giornata di Champions, una ragazza graziosa e sorridente indossa, con una certa goffaggine, una sciarpa blaugrana del Barça. All’uscita numero 4 incontra, ogni lunedì od ogni giovedì successivo ad una giornata di Champions, un aitante ragazzo in abito blu scuro che indossa, con una certa fierezza, una sciarpa a bande verticali bianche e viola del Real. I due si incamminano verso uno dei tanti grattacieli che sta deformando il paesaggio di quella che fu la Concessione francese, il luogo più seducente di tutta Shanghai, per iniziare una nuova settimana lavorativa.
Ogni volta che li incontro—i nostri orologi sono sincronizzati in modo inquietante per vivere in una megalopoli di 24 milioni di abitanti—decelero il passo per seguire con gli occhi la loro stramba conversazione di cui posso solo immaginare il contenuto. Nei larghi marciapiedi occupati dai platani piantati dai francesi, sviando motorini e bici elettriche che vi sfrecciano incuranti dei pedoni, i due animano un bar sport mandarino sul Clásico: schiamazzi, risate e tenerezze per discutere di un tema che ha tutta l’aria di essere un pretesto per far nascere altro. Dopo qualche centinaio di metri le nostre strade si separano e questo piccolo rituale metropolitano finisce mentre i due ragazzi, che forse sono innamorati, non sanno che un calciofilo italiano li ha notati. E c’è una ragione se l’ha fatto: sono tra le uniche persone che ha incontrato in tanti mesi apparentemente interessate al calcio.
Mosso da una irrefrenabile voglia di giocare a calcetto, inizio a vagliare ogni possibile canale. Un ragazzo cileno mi indica un gruppo WeChat con all’interno un qualcosa come 400 partecipanti, chiarendo che fosse l’unico modo di giocare a Shanghai. Scorro la lista dei partecipanti convinto che sia una via di fuga per expat, una piattaforma per socializzare in un paese il quale, checché se ne pensi, fatica ancora ad aprirsi al mondo. Al contrario denoto una massiccia presenza di ragazze e ragazzi cinesi e la circostanza mi lascia perplesso. Al termine della prima partita—immane la fatica per organizzarla—scambio qualche battuta con due ragazzi cinesi, peraltro più che bravi, che abituati a tagliare corto mi dicono: “è l’unico modo che abbiamo per giocare“. Sintomatico che un gruppo per cittadini internazionali sia uno dei primi appigli che un ragazzo di Shanghai abbia per giocare a calcio.
Qualche giorno dopo a cena un amico cinese che ha vissuto a lungo in Italia, ed appassionato di calcio, chiude la questione: “durante il liceo non ero visto di buon occhio dai professori perché con i miei amici giocavamo a calcio nel dopo scuola, ed era vista come una distrazione“. Ora gioca con una selezione amatoriale allenata da un portoghese ma non è molto fiducioso per il futuro: “spesso saltiamo gli allenamenti, tutti sono molto concentrati sulla carriera, non c’è tanto tempo a disposizione“. Alla fine della serata mi chiede di aggiungerlo a quel gruppo di WeChat.
Episodi simili si susseguono durante tutta la permanenza in Cina. Il 20 gennaio ad Al Ain vanno in scena gli ottavi di finale della Coppa d’Asia. I Dragoni Rossi di Marcello Lippi hanno agevolmente superato i gironi di qualificazione classificandosi secondi con 6 punti nel gruppo C, a tre lunghezze dalla Corea del Sud – vincitrice nello scontro diretto per 2-0. Mancano pochi giorni alla Festa di Primavera—il capodanno cinese, unica festività feriale della Repubblica—e in città si respira già un’atmosfera di vacanze. Mi aspetto una esperienza collettiva, maxi schermi supportati dalla municipalità di Shanghai, furore di popolo. Nulla di tutto ciò: la Nazionale vince in rimonta 2 a 1 (due reti in quattro minuti, la seconda su penalty), nel silenzio generale. Ancora più assordante sarà il silenzio tre giorni dopo quando ad Abu Dhabi l’Iran si imporrà per tre a zero nei quarti di finale decretando così l’eliminazione.
O ancora, e più: nel centro di Shanghai, di Pechino, di Guangzhou, di Xi’an non esistono store ufficiali delle squadre locali. Può apparire come un dato non rilevante ma, se si considera l’elevata propensione al consumo cinese, è affatto trascurabile. I Nike store, presenti ad ogni angolo delle città, non presentano un corner dedicato al calcio. I negozi dell’Adidas hanno in vendita solo saltuariamente poche divise del Manchester United, del Real e della Juve. Al contrario, gli store NBA sono onnipresenti, così come i negozi specializzati per il basket.
Xi Jinping a Roma lo scorso marzo, durante la cena di stato al Quirinale, ha infranto il rigido protocollo alzandosi dalla tavola per salutare il CT Marcello Lippi e congratularsi per il lavoro che sta svolgendo per il movimento calcio in Cina. L’intesa raggiunta con il governo Conte—allo stato più che precaria, considerato lo scioglimento del governo—ha una valenza geostrategica enorme per Pechino: l’Italia sarebbe il primo paese del G7 a partecipare ufficialmente all’implementazione dell’OBOR, la nuova Via della Seta, il mastodontico progetto infrastrutturale proiettato al dominio dei traffici commerciali globali. Il prestigio geopolitico che la partecipazione di un partner statunitense recherebbe al progetto è di vitale importanza per il Partito, come dimostrato dall’entusiasmo della stampa locale alla notizia.
Come spesso accade in Italia una schiera di opinionisti cialtroni ha commentato l’evento con grande approssimazione, immaginando una pioggia di yuan che si abbatte sulla Penisola, e il commento più grottesco udito in talk show politico è stato: “Da interista spero che l’Italia partecipi” con ciò alludendo direttamente alle possibilità che la famiglia Zhang investa più soldi nella Beneamata. In tanti auspicano grande partecipazione dei capitali cinesi nella Serie A mentre tutti sono convinti che il Celeste Impero sia terra d’opportunità ed immensi guadagni. Ma è davvero così?
Il filo rosso che lega i presidenti comunisti e il calcio perdura da Mao: si dice che il Timoniere fosse un abile portiere e che allenasse i contadini nella provincia dell’Hunan. Deng Xiaoping era un grande appassionato dai tempi dei suoi studi parigini. Quando Xi Jinping viene nominato segretario del Partito nel novembre del 2012 e poi presidente della Repubblica il seguente marzo lasciò intendere da subito quanto il calcio fosse importante nel suo ambizioso programma di ‘ringiovanimento della nazione’.
Il Zhōngguó Mèng è il ‘Sogno cinese’, il motto del ‘Pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con caratteristiche cinesi per un nuova Era’. Il termine racchiude propagandisticamente il nuovo ethos nazionale e la teoria politica di Xi, dal 2018 dignitaria dell’incorporazione in Costituzione. Se Deng ha portato fuori dalla fame la Cina, aprendo l’economia al libero mercato, e Hu ha marciato spedito verso la prosperità, Xi sopporta l’ingrato compito di condurre la Cina allo status di prima potenza mondiale. Il modo compulsivo con cui l’odierna Cina vive questo destino da compiersi non poteva che tangere anche il mondo del calcio. Un paese così fiero dell’attuale posizionamento nel mondo e così ansioso di primeggiare riserva nel calcio enormi aspettative. Quale miglior strumento di soft power del pallone, soprattutto se il Governo è impegnato a progettare una delle più grandi translatio imperii della storia.
La principale questione legata al calcio che le autorità dovettero affrontare ad inizio secolo fu la corruzione. In appena dieci anni di professionismo, nel 2004, il campionato cinese fu rebrandizzato Chinese Super League in modo da creare discontinuità con il passato di combine, scommesse e presidenti incarcerati. Compiuto il repulisti, il Governo concentrò l’attenzione sullo sviluppo della nazionale maschile (più che soddisfacenti i risultati di quella femminile, finalista nel ’99 del mondiale di categoria e vincitrice di 8 Coppe d’Asia). Sul modello dello sviluppo del calcio nipponico la CFA, la Federcalcio cinese, iniziò ad ingaggiare tecnici e preparatori di scuola europea e sudamericana, stimolando altresì la capillarizzazione dei centri federali e delle academy in tutto il territorio.
Nel 2008 la Nazionale torna a giocare un trofeo di dimensione globale alle Olimpiadi di Pechino, un enorme palcoscenico per mostrare al mondo la raggiunta potenza della nuova Cina. Sei anni prima, al mondiale ospitato dai rivali coreani e giapponesi, si era raggiunto per la prima volta la fase finale del torneo con l’imbarazzante bottino di tre partite perse ai gironi, nove reti subite e nessuna marcata. Mentre il paese ribolle di nazionalismo, la Nazionale sembra essere una barzelletta. Il Belgio si impone per 2 a 0 e il cronista della televisione di stato (la CCTV) liquida la faccenda: ‘la Nazionale ha deciso di uscire alla svelta così da non influenzare negativamente l’umore del popolo durante i Giochi‘. Xie Yalong, il vertice della CFA, verrà rimosso dall’incarico alla fine di agosto. Qualche mese dopo si diffonde la notizia che la Sanlu, una azienda cinese, contaminava il latte in polvere con la melammina, causando un enorme scandalo nazionale. La battuta al tempo recitava: ‘Latte Sanlu, il latte esclusivo della nazionale di calcio cinese!’. Altre e più grandi umiliazioni sarebbero giunte: una sconfitta con la Thailandia per 5 a 1, quarantasette posizioni più in giù nel ranking FIFA, o la doppia sconfitta nel giro di quattro anni con Hong Kong. All’improvviso la Nazionale, da plausibile leva di orgoglio nazionale, divenne il parametro su cui misurare il fallimento di una società, quella cinese, assolutamente impreparata a farlo. Si dice Deng eclamasse: ‘mi piace molto il calcio ma quando guardo la nostra nazionale mi sento soffocare‘.
Xi, fine stratega ed ingegnere del nuovo corso cinese, dall’inizio del suo mandato ha compreso perfettamente il potenziale di cui il calcio dispone. Così, a fare il paio con il Sogno cinese, il segretario coniò il ‘Sogno mondiale’: ospitarne uno entro il 2030—ad oggi i colloqui con Infantino vertono più sull’opzione 2034—e vincerne uno entro il 2050. Convertire il plausibile immenso fandom in un bacino di consensi, auspicabilmente composto da giovani. Nel 2015, durante una visita di stato nel Regno Unito, il presidente deviò il tour per fare tappa al centro sportivo del Manchester City e al National Football Museum britannico ove consegnò una palla ripiena di piume d’oca e capelli di donna, la palla del ts’u-chü, il gioco diffusosi durante la dinastia Han che la FIFA ha riconosciuto essere la più antica forma di ‘calcio’ della storia.
Nel 2016 viene promosso un ‘Piano di Sviluppo a medio e lungo termine per il Calcio cinese’, direttamente gestito dal vice premier Liu Yandong, volto a rendere il calcio parte del curriculum scolastico, incentivando la costruzione di più di ventimila scuole calcio e settantamila nuovi stadi in tutto il territorio nazionale. L’input politico stimolò i grandi conglomerati industriali e finanziari ad investire nei club delle maggiori città: Wanda, Evergrande, Alibaba ed altri iniziarono a partecipare, rilevare in toto o fondare club nelle maggiori città. L’inizio della stagione del mercato in entrata fuori controllo, degli stipendi monstre, degli acquisti insensati. Come spesso accade in Cina, il tutto e subito pare sempre essere la strategia più vincente.
I fiumi di denaro investiti nel pallone—sia nei club domestici che nelle sponsorizzazioni o nell’acquisizione di club esteri—hanno ingenerato la percezione nel Governo di aver perso il controllo del fenomeno. Veleggia il fantasma della fuga di capitali, ove gli investimenti altro non siano che un veicolo per far uscire dal paese denaro. La bolla, se così può si può definire, sembrava chiaramente destinata a scoppiare. Il Consiglio di Stato nel 2018 arrivò ad affermare che le spese nel mondo del calcio sono irrazionali.
Se nel 2015 gli esborsi erano stati di 415 milioni e nell’anno seguente di 545, il 2017-8 ha visto concludersi spese per 170 milioni, un terzo della media cui ci si era abituati. La fase recessiva è ancora più chiara se si pensa che gli investimenti nel pallone siano stati declassati, nel ranking governativo per gli investimenti esteri, da ‘incoraggiati’ a ‘soggetti a restrizioni’. La stretta sugli stipendi (l’introduzione di una forma temperata di salary cap e di una tassazione sfavorevole alle operazioni superiori i 50 milioni di yuan che prescrive il versamento del 100% della somma ai fondi di sviluppo del calcio giovanile) e l’introduzione di un fitto regolamento che impone un massimo di cinque stranieri tesserati per rosa, due quelli che potevano scendere in campo, numeri compensati dalla contemporanea presenza delle stesse unità U23 di passaporto cinese, completano un quadro di innegabile depressione. Allo stato, fatta eccezione per l’Inter di proprietà della famiglia Zhang, e del Wolverhampton, nessun club di tradizione fuori dalla Cina è sostanzialmente detenuto da imprenditori cinesi.
Il Governo si è rapidamente reso conto degli errori di valutazione e la classe imprenditoriale ha immediatamente virato corso. Se c’è una certezza negli affari in Cina è che qualcuno ti consiglierà ‘di seguire i trend del Governo’. Da un approccio formalistico che ha generato scarsi risultati ed ingenti passivi, si sta quindi virando verso un approccio più sostanziale, dove sia lo sviluppo di fatto del gioco il vero obiettivo. Uno dei fattori che più influenza lo sviluppo del calcio tra i giovani, come prima si accennava, è la pressione che la società loro riserva. Dalle scuole elementari inizia ad intensificarsi una sempre più crescente richiesta di eccellenza che culmina nel famigerato ‘gao kao’, l’esame dal cui esito dipende l’iscrizione alle più prestigiose università e da cui dipenderà, probabilmente, lo stipendio cui si avrà accesso nella carriera. Detto sic e simpliciter i ragazzi e le ragazze cinesi non hanno tempo da dedicare ad uno sport come il calcio dove il momento ludico è essenziale alla formazione dell’atleta. Sport individuali ove la disciplina e la costanza sono al centro dell’allenamento sono più consoni ad una rigida preparazione accademica; così il sistema si funzionalizza al meglio. Non sorprende, difatti, la posizione della Cina nei medaglieri olimpici.
Un secondo fattore, non trascurabile, è la crescente consapevolezza dei cittadini dell’inquinamento e della pulizia dell’aria (in questo senso lo Xismo è perfettamente indirizzato a politiche verdi di lungo periodo, come la costruzione della ‘Grande Muraglia Verde’). Sempre più famiglie lasciano che i figli, possibile il plurale dopo l’abbandono della one child policy, pratichino sport in contesti chiusi con filtri e sistemi di areazione pulita per evitare di stare troppo all’aperto in un ambiente insalubre. Gli spazi urbani sono un altro tema: il boom edilizio stimola la costruzione, non sempre preordinata, di interi quartieri o città che prevedono sì spazi verdi, ma non strutture sportive imponenti come un campo da calcio. I campi da basket, più piccoli e che richiedono una manutenzione quasi nulla, sono al contrario diffusi ad ogni angolo delle città.
Se gli investimenti diretti nel calcio non godono più dei favori del Governo, ciò non vuol dire che questo non ingerisca nella sua organizzazione. Il 2 ottobre 2018 la CFA ha prestato il consenso al Ministero dello Sport perché 55 giovani atleti, con staff al seguito, partecipassero ad un training camp di due mesi alla base militare di Tai’an. Il tutto durante le fasi finali del campionato, con partite decisive e la finale di Coppa di Cina ancora da disputarsi. Quando il Piano di Sviluppo sopracitato fu redatto il Ministero dell’Educazione e l’Amministrazione dello Sport concordarono, in ottemperanza agli statuti FIFA, su un punto chiave: concedere più autonomia decisionale alla Federcalcio. Per questo più commentatori, come il giornalista britannico Mark Dreyer, autore del blog China Sports Insider, hanno definito l’accaduto come la ‘morte del calcio cinese‘. L’evento ha scatenato diverse reazioni negative anche in patria, ove i più si sono interrogati sulla razionalità della mossa. Il ministro dello Sport, Gou Zhongwen, si è convinto—in totale contrasto con ogni prassi calcistica—che una delle ragioni per cui i risultati delle nazionali siano deludenti è la circostanza che i giocatori militino in club diversi. Obiettivo malcelato del camp militare è quindi la creazione di una Nazionale B che si iscriva unitamente in un campionato. Nel caso questo scenario si avveri non è da escludere che la FIFA possa prendere provvedimenti come l’esclusione della stessa CFA dalla sua federazione.
Se il Paese intero è impantanato nella trappola di Tucidide con gli Stati Uniti di Trump, nel contesto di una sempre più crescente crisi commerciale della c.d. Guerra dei dazi, la circostanza che la FIFA escluda la CFA è del tutto improbabile. Il Governo sta dissuadendo i grandi gruppi industriali dall’investire direttamente nel calcio ma è tutt’oggi ben conscio della leva di soft power che maneggia. Così Hisense, produttore di elettrodomestici, Mengiu, latte e prodotti affini, Wanda, immobiliare, Vivo, smartphone, sono diventati negli ultimi anni main sponsor FIFA. Alibaba, ben più celebre, è il principale finanziatore del Mondiale per club. Lecito dubitare che la FIFA ingaggi un duello con la CFA, come dimostrato dall’assenza di interrogazioni sul caso di Erpan Ezimijan, l’atleta di etnia uigura, presuntamente internato nei campi di rieducazione dello Xinjiang, la regione a maggioranza musulmana più strategia per il passaggio del corridoio 2 della Nuova Via della Seta. Al contrario, dal 2017, Zhang Jian, uomo della nomenclatura del partito ed ai vertici della CFA, è entrato a far parte del Consiglio direttivo della stessa FIFA.
Tirare le somme sul movimento calcistico cinese è compito quantomai complesso. Da una parte la mancanza di un’attitudine culturale al calcio potrebbe essere considerata il primo degli ostacoli, dall’altra neo-confucianesimo ed estrema competizione nel sistema scolastico impediscono che la passione del gioco si radichi nei più giovani. Le decisioni manageriali si sono dimostrate sistematicamente fallimentari così come il perseverare con la politica, genuinamente cinese, del tutto e subito. Il calcio è peraltro scarsamente profittevole in Cina: si pensi al Guangzhou Evergrande, squadra più titolata, i cui i ricavi si attestano sotto i 60 milioni di euro annui.
La sensazione vissuta personalmente è che il calcio non piaccia così tanto ai cinesi. E che per quanto si possa artificialmente stimolarlo, la sua diffusione sarà sempre ostica e il rapporto con i giovani e i tifosi sempre conflittuale. Il costo-opportunità tra le energie profuse nel calcio e il rendimento ottenuto è completamente negativo: sport atletici e invernali, o gli stessi e-sports, oltre il già citato basket, portano a volumi d’affari di gran lunga superiori. Se il rapporto tra la Cina e il calcio è quindi destinato ad una fase discendente è ora opportuno che i club europei diffidino dalle opportunità immaginarie che il paese potrebbe in potenza garantire. L’elevata esposizione al mercato cinese dei club europei, esasperata in estate dai fantomatici tour, è uno spettacolo grottesco perché alimenta l’illusione che piccole nicchie di tifosi maniaci di calcio estero—numericamente straordinarie ma pur sempre fisiologiche in un paese che conta un quinto della popolazione mondiale—possano arricchire le casse delle nostre squadre. Il ritorno ad uno sviluppo sostenibile e ad una promozione più sana del calcio in Cina è ora una necessità.