Come la depressione può trasformare il sogno in un incubo.
L’idea che chiunque di noi ha sulla vita dei calciatori è pressoché la medesima. Stipendi onerosi, oggetti lussuosi e fama mondiale. Tradotto: una quotidianità perfetta. Il pensiero comune non va mai oltre. Tutto ciò, se possibile, viene ingigantito dalla concezione che i tifosi hanno e che i media fanno passare dei calciatori. Atleti professionisti che vengono etichettati durante le telecronache come “alieni” o “mostri”. Allo stesso tempo i ragazzini che iniziano a tirare i primi calci al pallone vedono i vari Messi e Ronaldo come eroi da emulare. Errori che distolgono completamente da quella che è la realtà dei fatti; nel mondo del calcio ci sono semplici esseri umani. Esattamente come noi che guardiamo, tifiamo e critichiamo. Persone che hanno paure, debolezze e insicurezze. Un esempio su tutti è Cristiano Ronaldo, che per vergogna delle sue povere origini ha fatto demolire la casa nella quale è cresciuto. Se possibile, in molti casi, i calciatori sono molto più fragili della media, in quanto costretti sin da giovani ad affacciarsi ad una realtà molto difficile, che prevede il caro prezzo di doversi allontanare dai propri familiari, il dover rinunciare a quel magico periodo della vita che è l’adolescenza, mentre si rincorre quell’oggetto sferico che rappresenta il sogno di una vita.
Un giovanissimo Cristiano Ronaldo
In questo 2017 sono stati già due i casi che avrebbero dovuto riaccendere i riflettori sul problema della depressione nel mondo del calcio. Il primo, la morte del calciatore ceco Frantisek Rajtoral. Il giocatore della squadra turca del Gaziantepspor, è stato trovato morto suicida nella sua abitazione il 23 aprile. Il secondo caso è invece più recente e riguarda la scomparsa di Clarke Carlisle. L’ex calciatore è stato fortunatamente ritrovato nei pressi di Liverpool, poco dopo l’allontanamento in buone condizioni. La notizia è molto importante, in quanto l’inglese ha sofferto di depressione durante la sua carriera, e dopo aver appeso le scarpe al chiodo ha raccontato la sua esperienza e ha cominciato a darsi da fare per sensibilizzare i giovani. Entrambi gli avvenimenti sono scivolati via senza creare alcuna attenzione. Due però sono i messaggi che lasciano. In primis, la depressione uccide ancora nel calcio. Secondo, anche chi sembrava guarito può avere delle ricadute.
Non potevo vedere una ragione per chiunque di essere orgoglioso di me, neanche per la mia famiglia. Mi sentivo inutile, perché senza calcio loro potevano vedermi per quello che realmente ero. E io non ero niente. (Clarke Carlisle)
È utile innanzitutto fare chiarezza sulla depressione, una malattia che porta ad un notevole abbassamento dell’umore. Diversi e numerosi sono i sintomi che si possono presentare: tristezza, crisi di pianto, insonnia, riduzione dell’interesse verso le attività che solitamente ne provocano, maggiore stanchezza, bassa concentrazione e sentimenti di colpa. Il grado di depressione che solitamente colpisce i calciatori è lieve-moderato e comporta anche una certa difficoltà nell’essere riconosciuto, in quanto i segnali – che sono il ritardo agli allenamenti, stanchezza, tristezza e isolamento dal gruppo – possono essere letti come un semplice momento negativo.
Clarke Carlisle con la maglia del Burnley
Quella del calciatore professionista è una vita piuttosto atipica. Il pallone è il chiodo fisso attorno al quale ruota l’umore e l’autostima dell’atleta. Dietro a quella carriera ci sono (quasi) sempre storie di sacrifici, di famiglie che hanno investito tutto sui piedi dei propri figli. Nel mondo del calcio si può cadere nella depressione per vari motivi. Può accadere all’inizio, quando c’è solo uno spiraglio di carriera, il momento in cui un ragazzo giovanissimo viene prelevato da una squadra professionistica. Stiamo parlando di adolescenti abituati a vivere in casa, uscire con gli amici e andare a scuola, un’esistenza che si colloca solitamente nel paesino di residenza. Ritrovarsi improvvisamente a chilometri di distanza dai propri affetti e dover trascorrere le giornate esclusivamente a studiare ed allenarsi, dove la concorrenza è spietata, perché tutti vogliono arrivare, può causare non poche insicurezze nei giovani. Fatale, in questo periodo, potrebbe essere un infortunio. Quando a sedici anni senti il dottore dirti che la tac ha evidenziato la rottura del legamento crociato anteriore e che lo stop durerà più o meno di un anno, non è facile trovare la forza per superare un ostacolo del genere. Il buio può arrivare anche dopo, quando si è già calciatori affermati. Chi non riesce a fare i conti con la pressione delle aspettative e con gli attacchi della stampa. Svegliarsi la mattina seguente la partita, quando la propria squadra ha perso per un tuo errore e trovare il proprio nome su giornali e telegiornali. Buona prestazione, tutto tranquillo. Brutta prestazione, settimana da incubo. Oppure, c’è sempre l’insidia dell’evento esterno, come la morte di un caro o un possibile divorzio, che può scombussolare il fragile equilibrio di una vita tutta basata sulle prestazioni in campo.
Faruk Hadzibegic (primo in alto da destra), capitano jugoslavo che, dopo aver fallito un rigore contro l’Argentina a Italia 90 fu accusato di aver “distrutto” una volta per tutte la Jugoslavia
E se durante la carriera nessuno di questi problemi si è manifestato, il momento dal quale nessuno può scappare è quello definitivo dell’addio al calcio giocato. Cosa fare dopo, se fino a quel momento si è dedicato ogni giorno a calciare un pallone e non si è in grado di svolgere altre mansioni? E’ il caso del calciatore di livello medio, che ha militato in serie minori per la gran parte della propria carriera. Lo stipendio guadagnato in quei possibili venti anni di attività – che è la migliore delle aspettative – è comunque ottimo rispetto alla media di una persona normale, ma dal giorno della fine, c’è l’altissimo rischio di iniziare i risparmi, che non durano in eterno. La probabilità di trovare un’altra mansione è molto bassa.
Molti sportivi non sono in grado di accettare la vita che gli aspetta perché pensano che questo mondo fatato dove venivi pagato per essere un grande atleta, poi dopo ti costerà. Vedere le immagini di sportivi ingrassati di 40-50 chili […] che non erano capaci di fare cose elementari perché hanno vissuto in un mondo che non glielo chiedeva. […] È una sensazione che non vogliono provare e fanno di tutto per postdatare. (Federico Buffa)
Le vittime della depressione sono tante e illustri. Un caso su tutti, che non ci ha permesso di godere a pieno di uno dei talenti più limpidi mai visti in serie A, è quello di Adriano. Fatale per il brasiliano fu la morte del padre, che il giovane non riuscì mai a metabolizzare del tutto. Di poco tempo fa le dichiarazioni di Ibrahimovic, che lo ha definito il migliore con il quale abbia mai giocato. Restando a casa nostra, due casi che riguardano la Juventus: prima Buffon che ammise di aver vissuto 6-7 mesi molto difficili, nei quali aveva perso l’interesse per qualsiasi cosa. Nella memoria di tutti il tentativo di suicidio di Gianluca Pessotto nell’estate del 2006, che fortunatamente non portò alla morte dell’ex juventino. Altra vittima illustre è stata Paul Gascoigne, precipitato in un tunnel di alcool, droga e depressione, dal quale sembra non essere mai uscito. Purtroppo, però, la depressione ha portato anche la morte nel mondo del calcio. Nel novembre del 2009 il portiere tedesco Robert Enke si suicidò buttandosi sotto un treno. Un altro caso in Germania è stato quello del difensore del St. Pauli Andreas Biermann, suicidatosi nel 2014, mentre era in cura. Era il quarto tentativo di suicidio. Altri tragici suicidi furono quello di Gary Speed, ex leggenda di Leeds e Newcastle, e commissario tecnico del Galles, e quello, indimenticabile, dell’ex capitano della Roma Agostino di Bartolomei, che si sparò al petto e lasciò scritto: “Mi sento chiuso in un buco”.
Monologo da “L’uomo in più”, diretto da Paolo Sorrentino (2001)
La depressione non guarda in faccia a nessuno, e non bisogna dimenticarsi di chi abbandona il proprio sogno ancora prima di iniziarlo. Si tratta del giovane svedese Martin Bengtsson, considerato il nuovo Rooney dagli addetti ai lavori. Capitano della nazionale under-17 svedese, venne acquistato dall’Inter ancora giovanissimo. Una volta arrivato a Milano, si ritrovò ad allenarsi con tutte le stelle che pochi giorni prima aveva potuto vedere solo alla tv. Un sogno che però nascondeva non poche insidie. Una quotidianità che diventa troppo monotona: allenamenti, lezioni di scuola e ritorno in albergo a dormire. Un circolo senza fine, senza mai la possibilità di avere uno svago o provare a fare altro. Anche la semplice richiesta di poter comprare una chitarra viene rifiutata e posticipata. Se c’è una cosa che può definitivamente mandare a rotoli tutto, quella è un brutto infortunio. Passare dal campo di allenamento ad un letto di ospedale può trasformarsi in incubo, perché è l’antipasto di quello che succederà una volta appesi gli scarpini al chiodo, ovvero un’esistenza senza pallone. Un buco nero per chi vive di solo calcio. E’ questo tunnel senza luce che porta la giovane promessa a tentare il suicidio, che fortunatamente non riesce. Il ritorno in Svezia e la prova a ricominciare dalle serie minori è inutile, in Martin sparisce la voglia di entrare in campo e inseguire quel sogno. La depressione nel mondo del calcio è un vero e proprio tabù. Nonostante le morti e i casi numerosi, sono troppo pochi, ancora, coloro che trovano il coraggio di parlarne, di ammettere le proprie difficoltà e le normali insicurezze. Mostrarsi deboli in un mondo come questo, caratterizzato sempre di più da prove di forza, da muscoli da mostrare, da identità create su una esultanza, può comportare la fine di tutto. Quale squadra accetterebbe di credere ancora su un calciatore che ammette di avere problemi di stress o mentali?
«Adriano, che animale! Era il migliore, nessuno poteva fermarlo». (Zlatan Ibrahimovic)
“Appena arrivato all’Inter, segna in amichevole con il Real Madrid un gol di una potenza impressionante. Mi sono detto: «Questo è il nuovo Ronaldo», ha fisico, talento, velocità. È un ragazzo delle favelas, io conosco bene le villas, loro sorelle di miseria in Argentina. Stavo vicino a Adriano, ho visto i pericoli che genera la ricchezza, piovendo su chi non ha mai avuto un soldo. È peggio della droga. Adriano aveva il padre che lo salvaguardava, era un eroe come per me lo è Rodolfo. Ricordo che siamo al Trofeo Tim, d’estate, quando il calcio in notturna è passatempo per chi torna dalla spiaggia. Gli telefonano per dirgli: «Adriano, papà è morto». Singhiozza, non si riprende. Io, la squadra, il presidente Moratti, gli stiamo vicino come a un fratellino. Lui dedica i gol al padre, alza occhi e mani in preghiera al cielo. Lo persuadiamo a far venire a Milano la mamma e la fidanzata, in allenamento resta una roccia e in tre non riusciamo a spostarlo con le brutte da quanto è forte. È un ragazzo buonissimo, con Iván Cordoba passiamo serate a incoraggiarlo. Iván gli dice: «Ti rendi conto? Sei un misto di Ronaldo e Ibrahimović, puoi diventare più bravo di loro, hai tutto». Abbiamo fallito, non siamo riusciti a strapparlo alla depressione. Adriano piange, ci dà ragione, per un po’ fa la spola con il Brasile, litiga con la ragazza, ricade nella saudade. Il talento non basta senza forza mentale”. Javier Zanetti. Parole importanti sono quelle rilasciate dal responsabile medico della FIFPro, Vincente Goutterbage: “La nostra ricerca del 2015 sulle malattie mentali ha mostrato che il 38% dei giocatori in attività e il 35% di coloro che si sono ritirati soffrono di depressione e/o ansia”. Solo nei primi mesi del 2017 la PFA, l’associazione dei calciatori professionisti nel Regno Unito, ha ricevuto 178 chiamate da parte sia di calciatori ritirati che in attività, che hanno chiesto aiuto. Un numero che fa ben sperare, se comparato alle chiamate totali dell’anno passato, 160. Goutterbage ha affermato che questo aumento è stato fortemente condizionato dalle ammissioni di Kelly Smith, Rio Ferdinand, Clarke Carlisle e il principe Harry, che hanno deciso di condividere davanti alle telecamere le loro esperienze, mandando così un segnale importantissimo a coloro che vivono rinchiusi nella malattia e non se la sentono di urlare il proprio dolore.
I tifosi della Roma nel ricordo di Di Bartolomei
Il tabù della depressione non riguarda solo il calcio, ma l’intera società. Si stima che 615 milioni di persone ne soffrono, con un numero di vittime che si aggira a 850mila persone l’anno. Una cifra terrificante. E pensare che ogni volta che si sente nominare le parole “malattie mentali” si cerca sempre di non parlarne o comunque di starne alla larga, quasi per paura di esserne contagiati. È assolutamente necessario un cambio di mentalità, perché cercare di evitare il problema e quindi lasciare da soli e inermi chi ne soffre è la peggiore reazione che si possa avere. E, nel caso specifico del pallone, bisogna eliminare l’idea che si ha dei calciatori. Occorre smettere di abbinare un contratto professionistico ad una vita idilliaca. C’è un enorme errore di pensiero che è alla base del problema, da cui partono le radici che conducono alla malattia. Una diversa mentalità equivarrebbe ad una differente concezione dello sport, quindi ad una pressione minore e giocoforza porterebbe ad una predisposizione maggiore nell’accettare una richiesta d’aiuto proveniente da un atleta famoso. Quello del calcio è un mondo crudele e meschino, che funziona da agosto a maggio, un tempo limitato in cui bisogna dimostrare di essere un campione, di essere sempre in forma, di essere utili alla causa della squadra e meritare i soldi investiti dalla società. Alla fine della stagione tutto riparte da zero; chi era il faro del gruppo, può tranquillamente essere dimenticato e sostituito da un nuovo arrivato. Nel mondo del calcio, il lato umano non viene preventivato. Uno sport dove si consuma e si spreme l’atleta, fino a quando serve. I soldi e la fama non risolvono problemi. Essere un calciatore non significa essere immune alle malattie.