Un ricordo dello storico commissioner NBA, scomparso il 1 gennaio appena trascorso a 77 anni in seguito a un malore.
David Stern, avvocato ebreo dall’intelligenza rivoltante e lungimirante. Argenteo, insondabile, immobile, con gli occhi fissi ai vetri lucidi del suo ufficio su un grattacielo della Fifth Avenue di New York alla cui base scorre, brulica, il mondo in mezzo agli sbuffi biancastri del vapore che esce dai tombini delle strade di Manhattan; David Stern ha la soluzione, la risposta all’inutile gioco al rimpiattino della palla a spicchi americana nel cui logo, in quel momento, Jerry West sembra più nascondersi che partire in palleggio. Ma nel 1984 quando Stern si siede sulla poltrona di Commissioner occorre inserire il gioco in precisi assi Cartesiani individuandone l’esatta entità. E ci riesce.
Pragmatico, duro, convinto non solo dell’espansione del movimento ma di riuscire a fregare quei furboni del Football e del Baseball se ogni colpo di marketing andrà a buon fine, se tutto andrà come vuole lui.Fottuto genio di uno Stern, che mi infilasti in salotto i Seattle Supersonics del “Reign Man” Shawn Kemp, i Denver Nuggets dell’ineffabile Alex English, la Houston del “non abbiamo un problema” di Hakeem Olajuwon, la Portland dei sold out di Drexler che per poco non farà dimenticare la “blazermania” dei 10000, la Detroit del “profeta” Isiah, o quella preghiera sussurrata del “Stocktone to Malone” che rischiò di far ubriacare anche quei mormoni dello Utah.
Ma la provvidenza farà ancora di più perché la voce inconfondibile e travolgente di Dan Peterson (sì anche per me numero 1…) sprizzava una carica inarrestabile, contagiosa nel suo accento da copione, e allora sotto il sole della California i Lakers di Magic e Kareem, stipati vecchio Forum di LA, faranno canestro tirando pure da Santa Barbara da San Isidro, da San Jose e da Santa Clara, mentre nella schiumosa Boston fra merletti e zucche Larry Bird e soci sul parquet incrociato del Garden schiantano l’est e annettono tifosi.
Esplode la NBA, esplode il culto, palla e immagini rimbalzano dovunque, tutti corrono a comprarsi una canotta per andare al campetto e sfidarsi, gialloviola contro biancoverdi, ed io che disperdo uno dei miei primi stupendi per andare a New York ma mica per fare due passi a Central Park, no, no, per andare nella culla del Madison dove sotto le plance vigeva la legge di Pat Ewing. Poi chiaro, lui, in rosso con il Toro sul petto, Re Michael Jordan ed è un monoteismo che neanche la possenza di “Shaq” o il miglior Robinson di San Antonio incrinano, almeno fino agli esiti del “Mamba” Kobe Bryant o degli ultimi grandi signori dell’anello in stile “Marvel” Lebron James e Steve Curry.
Tutto questo ha visto Stern, e tutto questo ha portato a un successo straordinario, oltre a nuovi rigidi doveri, nel tentativo di domare eccessi afrocaraibici e proliferazione di droga. 40 anni di Stern dove un po’ per volta lui ha costruito una grandiosa operazione che ha permesso al basket statunitense di riemergere dalle ceneri di un certo abbandono. Adesso ha dovuto passare la palla. Ciao David, sit tibi terra levis.