Lorenzo Balma
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Larry Joe Bird ricopre di diritto uno spazio speciale nella storia della pallacanestro. Motivazioni: 3 titoli NBA, 3 premi di MVP, 2 premi MVP delle Finals, 12 All Star Game, 10 volte nel miglior quintetto NBA, 3 in quello difensivo e 1 oro olimpico nel Dream Team di Barcellona ‘92. Finisce la carriera con 24 punti a partita conditi con 10 rimbalzi ( non male per un’ala piccola di 206 cm), distribuendo più di 6 assist a gara e con percentuali dal campo e dalla lunetta quasi irripetibili. Uno dei giocatori più decisivi di sempre, un tiratore impareggiabile. In seguito allenatore, dirigente e ovviamente introdotto nell’Hall of Fame. Larry Bird è un’icona dello sport americano.
“Altro che stupido campagnolo” disse Red Auerbach storico ex coach dei Celtics in un’intervista, “il più motivato che abbia mai visto”. La cosa che più sconvolge analizzando le statistiche personali di Bird è il suo percorso di vita e di sport, accompagnato sempre dal ricordo, o meglio dalla nostalgia, delle proprie radici a cui è sempre stato morbosamente legato. Uno sguardo fisso all’umiltà delle sue origini, che è diventato poi rappresentazione del suo modo di giocare in campo: la giocata più facile, la lettura più funzionale, ma sempre con il massimo dell’efficacia. Questa sua capacità di far sempre la cosa giusta, sia in attacco che in difesa, magari ogni tanto accompagnata da effetti speciali, faceva sì che i compagni dicessero sempre: “Larry con la palla fa quello che vuole”.
Larry Bird nasce e cresce a French Lick, cittadina di 2000 abitanti dell’Indiana, stato in cui il football americano va fortissimo, ma dove la vera tradizione è la palla a spicchi. Ogni allenatore che Larry avrà durante l’adolescenza non farà altro che ripetergli quanto fosse forte il fratello, vero talento in famiglia, che il futuro All Star idolatra come tutti i fratelli minori. Larry passa le sue giornate a tirare a canestro in cima alla collina del centro sportivo della Spring Valley High School, cercando di migliorarsi. Su quel campo scopre probabilmente il segreto che lo aiuterà a farsi strada tra i giganti del basket: l’attitudine al lavoro. Gli allenatori che a quei tempi lo seguivano non si capacitano del del salto di qualità di cui è protagonista nel suo ultimo anno da senior: 30 punti e 20 rimbalzi di media gli permettono di guadagnarsi un posto al College di Indiana per giocare con la casacca dei mitici Hoosiers. Se sei forte a giocare a basket e sei nativo dell’Indiana, non puoi che ricevere una borsa di studio per giocare per gli Hoosiers, ma Larry non riesce mai a sentirsi a proprio agio nella sua nuova vita. Il passaggio dalla sua piccola realtà rurale ad un campus universitario con migliaia di giovani non lo stimola per niente, anzi lo spaventa terribilmente. Abbandona il college, tornando nella sua French Lick. E’ opinione di molti che Larry Bird non abbia mai avuto una grande considerazione di sé e dei propri mezzi.
Nella sua cittadina natale gli pare sia tutto a sua misura. Alle luci della ribalta della pallacanestro collegiale preferisce un lavoro come netturbino. Ma a casa ad attenderlo c’è la separazione dei suoi genitori che spinge il signor Joe Bird, molto amato da Larry, al suicidio. E’ l’episodio che gli cambia la vita e che lo fa tornare sul parquet. Una decisione presa per il bene della madre, dei fratelli, oltre che di se stesso. Va ad Indiana State: gioca per i Sycamores. Indiana State è sicuramente meno blasonata di Indiana, ma il giovane Bird si sente più a casa in un campus di dimensione ridotte e con aspettative inferiori. Larry è il trascinatore assoluto dei Sycamores che arrivano da imbattuti (33-0) fino alla finale NCAA del 1979, perdendo poi contro la squadra di quella che sarà la sua nemesi per eccellenza nell’NBA degli anni ‘80: i Michigan State Spartans del grande Earvin “Magic” Johnson.
Dopo la cocente delusione, deve decidere se rendersi disponibile per il Draft NBA. Larry voleva laurearsi, ma sa che per la sua famiglia i soldi del suo primo contratto da professionista sarebbero troppo importanti. A mala voglia, viene scelto dai Boston Celtics dove si consacra come assoluta stella del gioco. All’inizio i tifosi nutrivano molti dubbi sulle sue capacità ma dopo pochi mesi ogni perplessità era svanita lasciando spazio ad un folle amore. Forma con Robert Parish e Kevin McHale uno dei più forti “frontcourt” della storia della NBA. Insieme vincono tre titoli (‘81,’84,’86) alternandosi ai Los Angeles Lakers di Magic Johnson in un decennio di sfide memorabili. Le cifre, le giocate e le vittorie di Bird e dei suoi Celtics sono evidenti, quello che però non risulta mai banale è l’approccio e la leadership con cui Larry matura questi risultati. Vuole che tutti i suoi compagni tocchino la palla e partecipino alle giocate in attacco, in modo tale che poi in difesa giochino con fisicità, cattiveria e agonismo; ed è suo compito far sì che avvenga. Se a fine partita uno dei suoi non ha segnato come è solito fare è colpa sua, e se gli avversari hanno segnato troppo è ugualmente sua la responsabilità.
I compagni lo seguono e si fidano ciecamente di lui. Memorabile una sua intervista a caldo negli spogliatoi dopo una partita di Finals persa contro i Lakers: “abbiamo giocato come signorine”. Inutile dire chi ha vinto poi quella serie. Un giocatore così non nascerà più. Larry Bird incarna come nessun’altro i valori dello sport: altruismo, rispetto, tenacia, ambizione, lavoro e fame di vittoria. Quel ragazzone ha fatto della semplicità della sua vita, la sua più grande virtù in campo. Quando vinse il titolo NBA nel 1980 durante i festeggiamenti disse “c’è un solo posto in cui vorrei essere: French Lick”. In seguito con tanto di trofeo NBA e trofeo di miglior giocatore delle Finali andò a Terre Haute, nel campus dei Sycamores di Indiana State, per saldare il debito ideale di quella finale persa che né lui, né quella gente avevano dimenticato.