Oltre il basket e oltre i celebri Celtics: quando i re, in città, erano i Boston Six.
Ci sono alcune partite di basket di cui si racconta solo per voce. Se siamo fortunati possiamo recuperare qualche foto o un foglio delle statistiche che confermi i fatti. I 100 punti di Wilt Chamberlain in un Philadelphia-New York di inizio ani ’60, per esempio. In altri casi la trasmissione orale ingigantisce la storia, un po’ come nei resoconti dei pescatori. A detta di chi la vide, la sfida in allenamento tra i membri del Dream Team originale fu la partita più avvincente delle Olimpiadi 1992, c’è chi la chiama persino “the greatest game nobody ever saw”. O la sfida infinita tra Earl “The Goat” Manigault e Kareem Abdul-Jabbar, allora conosciuto come Lew Alcindor, sul cemento di Rucker Park: come tante altre storie da playground, è nata e cresciuta con il passaparola.
Se vi trovate dalle parti di Boston, forse vi capiterà di sentir parlare di un’altra partita. Nessuno l’ha vista, eppure in molti saranno pronti a giurare: la più bella di sempre. 24 marzo 1969, Catholic Memorial High School e Springfield Commerce arrivano imbattute alla finale per il titolo dello stato. Nella Boston di quegli anni, con la sua predominanza bianca, la lotta razziale è in pieno fermento: gli hippie della West Coast la prendono di mira come simbolo di un regime da superare, ma in città ci sono licei che schierano quintetti all black, alla faccia della tradizione. Nella Catholic Memorial gioca una guardia di colore, una delle più promettenti dell’intero paese. Si chiama King Gaskins, una scheggia alta poco più di un metro e ottanta. Quel pomeriggio però spara a salve. Si è rotto un dito in allenamento poche ore prima e non riesce ad azzeccare la giusta parabola per il tiro, la giusta meccanica. Fino all’ultima occasione. La sua squadra è sotto di un punto, mancano cinque secondi alla sirena, i compagni lo trovano smarcato e lo servono. La difesa di Springfield è stanca, lo sfida a tirare. D’altronde King Gaskins ha ammaccato i ferri fino a quel momento. Nei secondi che gli restano fissa gli occhi sul pallone, se lo rigira tra le mani come a riprendere confidenza con un amico. Poi segna il canestro della vittoria.
La vita di King Gaskins è un crocevia di momenti come questo, non tutti vissuti su un campo di pallacanestro. Ma prima di prendere altre strade, nei quattro anni di high school era diventato l’orgoglio del basket bostoniano, la punta di diamante di una generazione talentuosa e sfrontata. Sì certo, c’erano i Celtics che conquistavano campionati NBA, ma quella era tutta un’altra faccenda. Giocatori professionisti, venuti da altri stati e pagati coi soldi dei bianchi. A beantown – ma non chiamatela così, i locali si arrabbiano – si gioiva per le vittorie, ma non tutti si affezionavano alla squadra. Quando si trattava del basket più vero, quello di scuole, college e playground, Boston restava un puntino a malapena visibile su una mappa divisa a metà tra New York e Philadelphia. Per la reputazione di Boston sulla strada, Gaskins ha fatto più di Bill Russell: un ragazzino nato a Mission Hill, quartiere dove secondo la stampa dell’epoca
“le madri mandano i figli a giocare in vicoli pieni di spazzatura”.
Nel bottino di King Gaskins le partite leggendarie sono almeno tre, raccolte in meno di un lustro di attività. Già nella stagione da sophomore Chuck Daly, allora coach di Boston College, aveva messo gli occhi su di lui, ma come nelle migliori trame c’era una nemesi a contendergli le luci dei riflettori. Ron Lee, nato e cresciuto a Dorchester, il quartiere dei blue collar. Frequentò il college a Oregon, poi giocò nei Suns e concluse la carriera con una comparsata a Pesaro. A cavallo tra anni ’60 e ’70 infiammava le palestre delle high school insieme al rivale, fino allo scontro diretto datato 1972, stagione da senior per entrambi. Si affrontavano due “teams of destiny”, come li chiamava Leigh Montville, reporter del Boston Globe. Fu la Lexington di Lee a portare a casa il titolo, 76-69 alla sirena, ma Gaskins segnò 40 punti. Il dito era guarito bene. Montville, sul Globe del mattino dopo, sottolineò un concetto più importante del risultato: “these two kids, these two gifted black kids who had dribbled into predominantly white worlds and succeeded had been the show”.
La terza tappa nella storia di King Gaskins dista appena qualche mese, ma questa volta è un racconto corale. Lui e Ron Lee giocano nella stessa squadra insieme a Carlton Smith, Will Morrison, Bobby Carrington, e Billy Collins. Tutti nomi che si sono persi in trascurabili carriere NBA, ma poco importa: nell’estate del 1972 erano i Boston Six, e cambiarono per sempre l’immagine della città agli occhi degli appassionati di pallacanestro. A tirare le fila c’è Ken Hudson: un apripista, un visionario col vizio di imbroccare le idee giuste. Primo arbitro afroamericano full-time in NBA, poi un posto da dirigente alla Coca-Cola e infine general manager della stazione radio WILD AM. È proprio attraverso il microfono che diffonde ai quattro venti la notizia del torneo che ha appena creato, il Boston Shootout. L’operazione di marketing dà i suoi frutti e la gente si riversa nella piccola Sargent Gym, sulle sponde del Charles River. Vogliono vedere i Boston Six battere i grandi nomi che hanno accettato l’invito di Hudson. C’è Walter Luckett da Connecticut, uomo copertina di Sports Illustrated. C’è Phil Sellers, dai prestigiosi playground di Brooklyn, futuro leader di Rutgers University nella sua unica avventura alle Final Four. Soprattutto, c’è Adrian Dantley, da Washington D. C. e già in odore di NBA: la lascerà da hall of famer. Nessuno di questi fenomeni fu in grado di fermare Gaskins, Lee e compagni. I Boston Six raggiungono la finale da assoluti sfavoriti e la spuntano per un misero punto, con un’eroica stoppata di Carlton Smith sulla sirena. Dall’intervallo in poi, però, la partita non è più la stessa. La storia, quella con la S maiuscola, ha raggiunto la narrazione sportiva e l’ha superata. È il 4 luglio 1972, e in attesa che cominci il secondo tempo lo speaker annuncia notizie nefaste provenienti dalla costa occidentale: Angela Davis, attivista afroamericana, è stata appena accusata di omicidio da una corte californiana. L’iniziale silenzio si tramuta in rabbia, il tifo per gli eroi locali diventa un inno alla rivoluzione.
Dopo l’estate del ’72 anche la carriera di King Gaskins finì trascinata dalla marea degli eventi, e con essa la sua vita. Ignorò le lusinghe delle prestigiose Notre Dame e USC scegliendo invece il college di Holy Cross, nell’entroterra del Massachussets, per l’affetto che lo legava all’allenatore Ron Perry. Per la prima volta lontano da casa, dai campetti e dalla spazzatura di Mission Hill, si ritrovòre senza più un regno. Dire che la squadra era modesta sarebbe farle un complimento. Gaskins accumula buone cifre, ma fioccano le sconfitte. Bastano pochi mesi e già le riviste sportive vanno a caccia della sua storia, per dipingerlo come un idolo caduto. Con l’insorgere degli inevitabili problemi disciplinari, figli della frustrazione, Gaskins è costretto a trasferirsi a Mitchell Junior, nel Connecticut, e infine nello sperduto Iowa. Tra un trasloco e l’altro trova il tempo di farsi arrestare, perché a un nero non era permesso girare con un cacciavite in bella vista nella parte bianca della città, e di presenziare al funerale del fratello, crivellato da cento proiettili. A questo punto, è evidente come la pallacanestro non sia che un’ombra nella vita di Gaskins, improvvisamente troppo seria per ruotare intorno a un gioco. In Iowa c’è un ritorno di fiamma, e con una punta del vecchio orgoglio si guadagna un provino con Boston College. Sarebbe il ritorno a casa dalla porta principale, la reunion con quattro degli originali Boston Six. Un sogno che non si avvera, perché Gaskins non viene ammesso in squadra. Fine della corsa. Non sarà mai un giocatore di basket professionista.
20 anni dopo il primo, indimenticabile Boston Shooutout King Gaskins ha trovato una nuova casa, una nuova famiglia e una nuova missione. Fa il tutore di minorenni sotto sorveglianza, che provengono da ambienti disagiati simili a quelli in cui lui si fece le ossa. Li aiuta a stare lontani da alcool, criminalità e droga. Appena sbarcato a Santa Cruz, California, in città si sparse la voce: “You gotta meet the king”. In effetti non era difficile notarlo quando passava per strada, con quell’aria da nobile decaduto del New England e l’inconfondibile berretto floscio in testa, indifferente a qualsiasi moda. Un po’ per esperienza e un po’ per passione, era diventato bravo a leggere la gente. A Santa Cruz negli anni ’80 c’erano pochi ispanici e ancora meno afroamericani, nessuno di questi in posizioni sociali di rilievo. King Gaskins contribuì a cambiare il paradigma: decise di diventare un pioniere nel piccolo della sua comunità, così come lo erano stati – su scala maggiore – Ken Hudson e Angela Davis. Mise persino una pezza sulle tensioni tra gang rivali intorno al mercato della droga. Si espose in prima persona, sulla strada, insieme ai suoi ragazzi, forte della personalità che si era costruito. Ma non furono le pistole dei messicani ad ammazzarlo, né quelle dei White Pride. Ci pensarono le acque dell’oceano pacifico, nel 1994. Gli studenti che aveva accompagnato in campeggio lo videro allontanarsi per una nuotata, ma non tornò più a riva. Sembra che fosse quello il destino della vita di King Gaskins: trascinata da forze più grandi di lui, prima a largo e poi a fondo.
Sul litorale di Santa Cruz gli hanno dedicato un campo da basket, il Jade Street Park, dove lo chiamavano “The Peacemaker” per come si dedicava a sedare ogni rissa. “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” recita la placca posta in sua memoria, dal Vangelo secondo Matteo. A Pacific Avenue, in pieno centro città, i suoi studenti l’hanno ritratto in un murales coloratissimo, degno del suo carattere. Lo restaurano regolarmente anche se sono passati altri vent’anni da allora; le nuove generazioni non conoscono King Gaskins, eppure si danno appuntamento sotto il suo faccione sorridente.
Boston non gli è rimasta altrettanto grata e non ha eretto statue in suo onore. Quando tornava a casa, approfittando di ogni periodo di vacanza, trovava una città molto diversa da quella che aveva reso grande nella lontanissima estate del ’72. A Mission Hill non c’era più spazzatura per la strada. La Dorchester della sua nemesi Ron Lee nascondeva l’identità da working class sotto una patina da quartiere residenziale. I Celtics avevano ripreso a vincere, con Larry Bird al posto di Bill Russell, e al Garden accorreva anche un buon numero di afroamericani. Il Boston Shootout conservava soltanto il nome dalla sua edizione originale, ormai ridotto a una vetrina per sponsor e giovani già opzionati da Nike o Reebok: ci passarono anche Kobe Bryant e Paul Pierce, ma non certo per difendere l’onore della propria città. Tuttavia, a ogni visita a The Hub il re si premurava di compiere un tour completo dei playground di ogni sobborgo. The ‘bury, Mattapan, North Cambridge, Roxbury, The Fens: non ne mancava uno, per mostrare ai ragazzini come si giocava duro ai tempi dei Boston Six. Prima di morire King Gaskins fece in tempo a ritagliarsi di nuovo uno spazio nella memoria collettiva di una città che aveva dimenticato il proprio debito di gratitudine. Una Boston diversa, dove neri e bianchi provano a non sentirsi così diversi – ma non sempre ci riescono; dove fanno finta di non dipendere entrambi dalla stessa macchina mangiasoldi che teneva in piedi il Garden e mandava avanti i Celtics – che fossero quelli di Bill Russell, Larry Bird o Paul Pierce. Una Boston, nondimeno, che ha ancora bisogno dei suoi eroi e dei suoi re.