Altri Sport
23 Novembre 2024

Larry is always (W)right

Compie settant’anni l’uomo che portò il Bancoroma sul tetto d’Italia e d’Europa.

L’assenza è sempre il modo per valutare la reale dimensione di uno sportivo. Quando negli anni Ottanta era in campo a guidare le imprese del Bancoroma, Larry Wright rendeva grande la squadra, ma era proprio quando non c’era che se ne percepiva tutta l’importanza. Se per caso lui era infortunato il gioco, come per sortilegio, perdeva di fluidità. Tutto diveniva più complicato, si potevano anche perdere partite che in sua presenza si vincevano con le mani dietro la schiena.

IMPRESCINDIBILE

Per gli avversari, non averlo di fronte era sempre un sollievo. Del resto, il palmarès della squadra romana (poi Virtus) parla chiaro: il poco (ma buono) che nella Capitale si è vinto a livello cestistico, in Italia e all’estero, lo si è potuto vincere quasi per intero in presenza del suo playmaker per antonomasia. Larry Glenn Wright compie 70 anni ma per gli amanti del basket rimane ancora il “folletto nero”, un campione senza età, una parentesi d’amore pienamente corrisposto.

Personaggio estroso ma poco disponibile e uomo squadra come pochi. Senza di lui l’allora Bancoroma non avrebbe mai vinto il campionato nel 1983 e la Coppa dei Campioni nell’anno successivo, sarebbe mancato un creatore di gioco di quel livello, un fuoriclasse capace di fare la differenza necessaria nei momenti che contano. Perché è sotto pressione che si è leader o meno ed è proprio in quei momenti che si vince o si perde.


UN AMERICANO A ROMA


In quegli anni a Roma ci sono soprattutto due sport e due grandi punti di riferimento: il calcio e il basket, Falcao e Wright (il giornalista Aldo Giordani arrivò a definire l’americano “un Super Falcao”). Entrambi porteranno il tricolore nei rispettivi sport, ma per quanto concerne la Coppa dei Campioni il “folletto nero” riuscirà laddove il numero 5 giallorosso avrà in qualche misura fallito. È proprio da qui, da un trionfo di 40 anni fa dello sport di casa nostra, che si dipana la vicenda italiana di Larry Wright, nato a Monroe (Louisiana) il 23 novembre 1954 e già protagonista dell’NBA americana a cavallo tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo. Ma procediamo per gradi. La prima domanda è: chi è e da dove spunta il futuro numero 4 del Banco? In altre parole, Larry chi?


I FOUND YOU, MAN


Il presidente Eliseo Timò ha fatto capire al coach che è disponibile a spendere più del solito per rendere la squadra romana competitiva, tutte le avversarie si stanno rinforzando e la A1 sta diventando un campionato piuttosto interessante. Ma non può garantire follie, dunque carta bianca ma occhio al budget. Valerio Bianchini afferra al volo il concetto e prima di indicare nomi cerca di individuare i punti deboli della squadra. Il Bancoroma ha un buon quintetto ma ci vuole un po’ più di personalità nel dirigere il gioco. Serve un playmaker in grado di fare la differenza ma non uno qualsiasi. Il mercato americano ne mette a disposizione alcuni bravissimi e fuori rosa ma serve il profilo giusto.



Tecnico, carismatico, geometrico ma anche capace di imprevedibilità vincenti. Uno stabilizzatore che sappia pure incazzarsi. All’improvviso il coach chiede di un certo Larry Wright, che ricorda di aver visto in azione a Washington anni prima. Stabilito il contatto Bianchini vola a Monroe e vede Larry all’opera. Distribuisce il gioco, tira fuori il meglio dai compagni, non indulge a personalismi pur essendo nettamente il più forte. Lo ascoltano, con lui si vince. Nella testa del tecnico si accende una lampadina: “è quello che cercavo”. Scriverà di lui Aldo Giordani su Superbasket:

“È una shooting guard, nel senso che per fermarlo devi sparargli. Parte in palleggio, non fai in tempo a voltarti e ti ha già battuto”.

Ma non è solo veloce, ha una tecnica superiore e al tiro frontale è quasi infallibile. I suoi tiri vincenti sono spesso accompagnati da un lungo ooooh di ammirazione da parte del pubblico. Non è un boss, è un leader. Uno di quelli che si armano e partono con i compagni. Sempre. Anche e soprattutto grazie a lui il Bancoroma diventa in pochi anni un fenomeno sportivo popolare. Ogni romano, laziale o romanista che sia, ha un motivo per identificarsi nella squadra. E il 19 aprile 1983 il destino si compie.

A piazza del Popolo, tifosi, giocatori e società festeggiano insieme. Il Banco è campione d’Italia. Non era mai successo, senza le magie di Larry Wright non sarebbe successo più. Sarà un tipo a volte bizzoso, rompiballe, un po’ paranoico ma è la chiave di tutto. Se gira lui, girano gli altri quattro in campo. L’Italia di quegli anni è un Paese che parla di sé attraverso lo sport e tramite imprese individuali e collettive si sta garantendo un posto di prima fila. Ma per portare a compimento il salto di qualità gli stranieri che operano da noi sono importanti. Servono i Falcao, i Platini, serve Mike D’Antoni che fa grande la Milano del basket. A Roma senza Larry Wright si rimarrebbe di medio cabotaggio. E invece…


IL TRIONFO DI GINEVRA


È il 29 marzo del 1984 e il Bancoroma è in Svizzera, a Ginevra. Non è una gita di piacere: al Patinoire des Vernets attende il Barcellona, in palio c’è la Coppa dei Campioni e i “bancari” romani partono sfavoriti nei pronostici. L’impianto è in realtà una pista di pattinaggio adattata alla pallacanestro ma ha una “qualità” importante: non sembra portare fortuna alle squadre spagnole. Nel 1962 il Real Madrid vi ha perso la finale contro i sovietici della Dinamo Tbilisi, mentre nel 1976 è sempre il Real a rimanere irretito nel freddo del Palais mentre la Mobilgirgi Varese fa sua la Coppa. Ma corsi e ricorsi storici a parte, nel 1984 il quintetto azulgrana è più forte dal punto di vista tecnico e i nomi che compongono la rosa sono in alcuni casi quelli di star di livello internazionale come San Epifanio, Chico Sibilio, Solozabal e gli americani Starks e Davis.

Di contro, i giocatori del Banco sono quasi tutti romani. Romani come Gilardi, come Polesello, come Sbarra, come Castellano. Ma a guidarli, oltre al coach Valerio Bianchini, è un playmaker americano di grande classe e di altrettanto carisma, in campo e fuori: Larry Wright. Giunto alla soglia dei 30 anni in ottima condizione atletica, è l’unico che può arginare la forza degli avversari, rendendo equilibrata una sfida altrimenti impari. Ed è su di lui che sono puntati gli occhi dei tifosi del Banco, quelli presenti a Ginevra (5.000 supporter al seguito) e quelli che assistono alla diretta tv di quel giovedì sera.

La storia

Ricorda Valerio Bianchini: «L’approccio iniziale alla gara fu sbagliato per tanti motivi. Innanzitutto, ci venne a trovare l’allora presidente del CONI Franco Carraro, il quale ci disse ‘Mi raccomando ragazzi, è importante’. Quando un’alta carica istituzionale dice una cosa del genere nel momento in cui un coach cerca di dare tranquillità alla squadra, ogni tentativo di stemperare la tensione diventa impresa impossibile. Per di più, nella prima frazione Larry non riusciva a carburare. Ma alla fine del primo tempo avvenne un fatto, che per un carattere orgoglioso come quello di Larry Wright fu determinante».  

In effetti, non è mai il caso di offendere l’orgoglio di un campione. Ed è invece ciò che Mike Davis, tra l’altro un ex del Bancoroma, in qualche modo fa. È appena finito il primo tempo e nel rientrare negli spogliatoi Davis dice a Wright: “Stavolta le prendi, il premio non lo becchi”. La dirigenza del Barcellona è talmente sicura della vittoria che già cominciano a circolare bottiglie di champagne. Larry è una belva infuriata che tra un tempo e un altro impreca in una babele di lingue commiste ma con forte accento della Louisiana.

Quello che rientra in campo è un altro e di conseguenza il Bancoroma comincia a recuperare lo svantaggio. Diventa una sfida (con tutto il rispetto per gli altri quattro del Banco) tra il “folletto nero” e il quintetto avversario. Risultato finale, 79-73 per il Banco e la Coppa dei Campioni va a Roma. In ambito calcistico, due mesi e un giorno dopo, alla Roma e a Falcao non riuscirà la stessa impresa, in finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Avrebbe potuto essere per la Capitale un “double” da consegnare alla storia.


LARRY E GLI ALTRI


Nonostante il pubblico lo ami, Larry Wright fa fatica a legare con la squadra e con l’ambiente cittadino. Anche per propria responsabilità. Tanto per dire, Larry si rifiuta di parlare italiano: «Comunicavamo perché eravamo compagni di squadra – ricorda Enrico Gilardi, guardia del Bancoroma di quegli anni e compagno di stanza di Wright durante le trasferte – ma soprattutto parlavamo il linguaggio sportivo. Gli stranieri che venivano in Italia avvertivano l’esigenza di integrarsi e noi dovevamo allo stesso tempo sfruttare il patrimonio tecnico che loro portavano in dote. Larry questo bisogno non lo sentiva affatto». E ancora:

«Era una persona di cuore, ma a volte avvertiva razzismo anche dove non c’era. Bastava che al ristorante, o in albergo, il cameriere portasse a tavola la pasta prima a un compagno di squadra italiano che a lui. Però ti accorgevi della sua grandezza quando non c’era».

Anni fa lo stesso presidente del Bancoroma Eliseo Timò (deceduto nel 2022) ha ricordato di Larry Wright un dettaglio abbastanza particolare: «Indubbiamente non era un personaggio facile. Con me, per esempio, parlava solo di profilo, non mi guardava mai in faccia. Il motivo non l’ho mai capito, anche perché fra noi c’è sempre stata sintonia di vedute. Per il Bancoroma è stato comunque un personaggio indispensabile. Non è casuale se la gente, a tanti anni di distanza, lo ricorda con così tanto calore». Per questo motivo, il distacco fra il numero 4 americano e il Bancoroma sarà così traumatico per i tifosi.


TUTTI I TITOLI TRANNE UNO


Larry Wright non può vantare l’Intercontinentale nel suo palmarès. Subisce un incidente che lo terrà lontano dai parterre per un’intera annata e nel frattempo il Banco ha ingaggiato Raymond Townsend in sostituzione. Playmaker meno geniale, meno personaggio ma comunque molto affidabile. È con lui che il 19 settembre 1984 il Bancoroma precede nella classifica finale gli argentini dell’Obras Sanitarias, ponendosi sul tetto del mondo. Roma caput mundi, stavolta sì. Anche nel basket. C’è sempre un Mosè che porta il suo popolo alla Terra Promessa ma poi non entra. Non con entrambi i piedi, perlomeno.

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