Risolvere una questione per alimentarne altre cento: il ciclismo eccelle anche in questo.
Nove mesi di polemiche, illazioni, zone d’ombra, dibattiti, prese di posizione e compagnia andante sono stati cancellati e buttati nel cestino da un comunicato UCI di una trentina di righe: Chris Froome è stato assolto, scagionato, non è colpevole. C’erano, e ci sono tutt’ora delle regole, che in un primo momento il britannico sembrava aver violato: e invece, l’eccessivo quantitativo di salbutamolo imputato a Froome è dovuto ad un’assunzione del farmaco normale e nei limiti previsti. Non pensiate che sia finita qui. Il ciclismo, ancora una volta, ha trovato il modo per farsi male, per screditarsi, per alimentare pericolose spaccature. Il ciclismo, è bene ricordarlo, è lo sport più semplice che esista: duecento cristiani che pedalano e il primo che taglia il traguardo, vince. Non c’è fuorigioco, arbitro, guasti al motore, o alla centralina, e chi più ne ha più ne metta. Ci sono delle regole, però, quello si: giuridiche e morali. Che non riguardano soltanto i corridori, attenzione.
Essere un’istituzione implica diritti e doveri, oneri e onori. Non autorizza a muoversi in maniera totalmente scollegata dal resto del mondo. Anzi, al contrario, andare di pari passo è fondamentale. Ecco, questo nel ciclismo non è successo. Se nella lotta al doping sono stati fatti progressi notevoli, frutto di una sinergia degna di nota tra corridori ed organi, nella gestione di casi più o meno spinosi invece non è cambiato praticamente nulla. Due doverose precisazioni: la prima, morale se vogliamo ma necessaria per non sfociare nella follia, è che l’antidoping non è e non sarà mai il problema, perché si è letto anche questo; la seconda, la querelle salbutamolo-Froome era effettivamente di non facile lettura. Probabilmente, l’aver reso pubblica questa vicenda è stata scelta azzeccata fino ad un certo punto perché si è dato in pasto all’opinione pubblica un caso lontano dall’essere risolto il cui protagonista era atteso al varco da anni. Questo, però, non giustifica tempi (e tempistiche) del genere.
Quanta casualità c’è tra ASO che annuncia di voler impedire a Froome di partecipare al Tour de France 2018 e l’effettiva assoluzione del ciclista britannico? Nessuna, ovviamente.
Perché aspettare così tanto? Com’è possibile che ci siano voluti nove mesi? E perché la Grande Boucle si rivela ancora una volta “l’animale un po’ più uguale di altri”?
Non c’è stata una sola delle parti in causa che ha beneficiato di tutto questo caos. La Sky ha avuto in casa per un anno un ordigno pronto a esplodere da un momento all’altro; Chris Froome si è sentito dire di tutto e alla pressione del risultato sportivo si è aggiunta quella del risultato giudiziario; l’ambiente è stato scosso e diviso per mesi, dai corridori ai direttori sportivi; la stampa ha riempito un buon numero di pagine, è vero, ma l’altra faccia della medaglia è il ritrovarsi costantemente a parlare o scrivere di una vicenda immobile, impantanata; le istituzioni hanno perso e fatto perdere al ciclismo ancora più credibilità perché adesso ne sentiremo di tutti colori, che il più pulito ha la scabbia, che il Team Sky è stato privilegiato, che per Froome è solo questione di tempo; e gli organizzatori, che vedono le loro corse trattate in maniera diversa rispetto al Tour de France, penso al Giro d’Italia che ha dovuto convivere con questa vicenda fin da dicembre. E i tifosi, già, ci sono anche loro: perché questi sono discorsi di palazzo, tra istituzioni e giudici, laboratori ed organi giudiziari, al massimo sponsor, però se la baracca va avanti è grazie a quelle migliaia di disperati che si fanno lo Zoncolan a piedi o in bicicletta. E che credono, o perlomeno vorrebbero credere, in uno sport elementare nel suo svolgimento, facile nonostante un’immensa fatica. E che ogni volta vengono lasciati a bagnomaria, con mille dubbi in testa. Forse ce n’erano meno in partenza, a caso ancora irrisolto.
Crediti foto copertina: CyclingTips