Il calciomercato in Italia è esploso ultimamente, ma raffigura una fiera dei sogni che appassiona gli Italiani da molto più in là.
Nel lontano 1952 si chiamava campagna trasferimenti dei calciatori. Durava solo il mese di luglio, e si svolgeva in un antico albergo milanese non distante dalla Stazione centrale, l’Hotel Gallia. In seguito, a partire dal 1969, il luna park del mercato del calcio si trasferì al nuovo Hotel Hilton, distante cinquanta metri dal Gallia dove, di fatto, nacque il calciomercato come lo conosciamo oggi. Arrivarono poi l’Hotel Leonardo da Vinci, quindi Milanofiori, fino all’ Ata Hotel Exsecutive e all’attuale Starhotels Business Palace, a Rogoredo. Ma è all’Hotel Gallia che la campagna acquisti entrò nell’immaginario collettivo di un’intera nazione. Un albergo ottocentesco molto chic frequentato da una clientela di alto bordo che, in quel mese, mutava pelle, diventando una sorta di teatro di varietà dedito all’avanspettacolo, dove recitavano una galleria di personaggi eccentrici e un po’ naif.
Come il presidente del Palermo, il principe Raimondo Lanza di Trabia, uno stravagante dandy palermitano che occupava un’intera suite dell’albergo, dove ospitava indistintamente attrici e dirigenti di calcio indossando lussuose vestaglie di seta cinese. Gli piaceva giocare d’azzardo, al principe: scommise con Gianni Agnelli sullo scudetto al Palermo e promise ai suoi giocatori un premio di dieci milioni ciascuno in caso di tricolore. I risultati sul campo lo delusero, lui si consolò sposando l’attrice Olga Valli. O come l’ingenuo conte Marini Dettina, presidente della Roma, a cui vennero rifilati così tanti bidoni spacciati per fuoriclasse che dovette vendere castelli, quadri e gioielli di famiglia per rientrare dagli investimenti per la sua amata squadra. Ma il personaggio che più di ogni altro simboleggiò quell’irripetibile epoca fu il comandante Achille Lauro, acclamato presidente del Napoli Calcio.
O’ Comandante, Achille Lauro (1887-1982)
Lauro era un armatore di Sorrento compromesso col Fascismo, arricchitosi durante la campagna d’Etiopia, internato dagli alleati e poi tornato in auge grazie a rapporti privilegiati con alcuni componenti del Governo del dopoguerra. In quell’estate del 1952 era uno dei leader del Movimento Monarchico, e coltivava non poche ambizioni politiche. A Napoli erano alle porte le elezioni amministrative e l’armatore voleva utilizzare, guarda un po’, il calcio come volano per le proprie ambizioni. Chiese al suo allenatore di fornirgli il nominativo del più forte calciatore in circolazione, e Monzeglio gli suggerì quello del poderoso centravanti dell’Atalanta Hasse Jeppson. A quei tempi, Jeppson era l’attaccante di punta della Svezia, e aveva sostituito Nordhal nelle grazie dei tifosi della nazione scandinava.
Acquistato a campionato in corso dalla squadra bergamasca per 30 milioni di lire, in quella stagione 1951/52 aveva dato un contributo determinante agli orobici per il raggiungimento della salvezza realizzando 22 reti, e impressionando tifosi e critici per velocità e forza fisica. Lauro non badò a spese: mise sul tavolo della trattativa 77 milioni per l’Atalanta, più 30 al giocatore come premio d’ingaggio per i successivi tre anni. Il presidente della squadra orobica Turani quasi non voleva credere ai propri occhi, e accettò immediatamente. Per quei tempi, si trattava infatti di una cifra astronomica. Si levarono alte le grida di protesta: scandalo etico, si disse, specie in riferimento a una città, quella partenopea, con atavici e irrisolti problemi di povertà.
Qualcuno pensò di portare la questione all’attenzione del Parlamento. Si parlò apertamente di speculazione economica, e sulle pagine dei giornali campeggiarono titoli in cui veniva celebratoil funerale dello sport, che abdicava alle nuove esigenze dello spettacolo. Quando arrivò alla stazione centrale di Napoli, il centravanti svedese venne accolto come un re da una folla in delirio. Si registrò un boom di abbonamenti, e lo Stadio del Sole, a Fuorigrotta, era sempre stipato come un uovo. Jeppson giocò quattro stagioni con la maglia azzurra disputando 112 partite e segnando 52 reti. Il suo rendimento non fu sempre all’altezza delle aspettative, e accanto a reti apparentemente impossibili, rimasero celebri le facili occasioni da gol mancate a pochi passi dalla porta e, l’esclamazione “mannaggia Jeppson!”, echeggiò spesso sugli spalti.
Primo piano di Hasse Jeppson (1925-2013), al Napoli dal ’52 al ’56
Negli anni a seguire, furono spesso i colpi a effetto del Napoli a simboleggiare i deliri di onnipotenza che accompagnavano certe acquisizioni milionarie con le quali alcuni presidenti si ribellarono allo strapotere economico delle tre grandi società del nord. Nel 1955 arrivò sotto il Vesuvio Luis Vinicio, O Lione, mentre, nella campagna trasferimenti dell’estate di dieci anni dopo, destarono scalpore gli acquisti delle due stelle Sivori e Altafini. A Napoli si ripeterono le scene di apoteosi già viste ai tempi di Jeppson, e gli abbonamenti toccarono punte mai raggiunte in precedenza.
Trascorsero altri dieci anni, e Napoli accolse O Maragià, ovvero Beppe Savoldi. Il “Totonno, fa ttu”, sorta di ode-invocazione indirizzata dai tifosi partenopei al loro capitano totem Antonio Juliano, non era stata sufficiente per permettere alla squadra di competere per lo scudetto, e allora il Presidente Ferlaino strappò il centravanti bergamasco al Bologna per due miliardi di lire – un miliardo e duecento in contanti, più Clerici e la comproprietà di Rampanti -, una cifra che fece gridare allo scandalo in una città in quei giorni assillata dall’ emergenza rifiuti. Nella trattativa comparve addirittura una pistola, con cui il presidente del Bologna Conti, minacciato dai tifosi, intimò a Ferlaino di desistere dall’acquisto. Ma ormai era troppo tardi, e Giuseppe Savoldi, Mister due miliardi, diventò il nuovo idolo dello stadio San Paolo. Anni dopo arrivarono i quarantasette giorni per portare Maradona sotto il Vesuvio, fu acquistato Careca, fino ad arrivare ai colpi recenti di Cavani e Higuain e alle odierne sessioni di calciomercato; ma tutto iniziò con quella trattativa milionaria del lontano 1952.
O’ Maragia o anche “mister due miliardi”: un trasferimento decisamente complesso…
Partendo da lì, si è arrivati a un emiro trentasettenne che acquista il giocatore più mediatico del pianeta calcistico per conto di una minuscola monarchia del Golfo ricchissima di gas naturale. Perché Neymar è solo la tappa temporanea di un percorso iniziato 65 anni fa. Dal film in bianco e nero da 107 milioni di lire di allora, si è arrivati al kolossal hollywoodiano da 550 milioni di euro di questa estate. E dalla campagna trasferimenti aperta solo nel mese di luglio, si è passati a mesi di trattative ufficiali e sotterranee che creano un effetto distorsivo sulla percezione delle prestazioni sul campo, con la tendenza a gioire o recriminare per l’ultimo acquisto colto o svanito, piuttosto che valutare l’operato della società di cui si è tifosi con gli strumenti della ragione.
Ma è la legge del calciomercato, bellezza, e allora le illusioni si sostituiscono alla cruda realtà. Una realtà che, per esempio, ti sussurra che gli ultimi 26 (ventisei) titoli – a parte il biennio giubileiano di Lazio e Roma – se li sono spartiti Juventus, Inter e Milan. E se sei un tifoso del Napoli, o della Fiorentina, o di una delle due squadre della capitale, per non parlare degli altri team, questi sussurri preferisci non avvertirli, e insegui le tue personali illusioni. Perché poi il calciomercato di questo si occupa: alimentare illusioni. E finita una corsa, pardon, sessione, avanti con la prossima. Perché vuoi mettere, se compriamo Caio, (a proposito, ve lo ricordate nelle vesti di meteora neroazzurra?) e lo mettiamo al posto di Sempronio, e poi ci liberiamo di quel bidone di Tizio, allora sì, che siamo competitivi.
E tutta quella compagnia di giro con un cast che strizza l’occhio alle maschere della commedia dell’arte di goldoniana memoria, è perfetta, allo scopo. Maschere da commedia, appunto. Perché dopo i Lauro e i Lanza di Trabia, altri attori si sono incaricati di sostituirli per recitare in quella sorta di Teatro dei Sogni.
Dallo Sceriffo, ovvero il Direttore Sportivo del Milan Gipo Viani, al ras Italo Allodi, Direttore Sportivo e manager ante litteram di Inter, Juventus e Napoli. Dal presidente del Catania Massimino – che una volta sentenziò: “C’è chi può e non può. Io può” – al presidente dell’Avellino Antonio Sibilia che, in dialetto, diceva: “Io compro, io pago, io comando”. Dall’ingenuo presidente interista Ivanohe Fraizzoli, uno sciur meneghino famoso per essersi fatto soffiare da sotto il naso Anastasi, Chiarugi, Tardelli, Ancellotti e Platini quando tutti già li davano vestiti di neroazzurro, al pittoresco e istrionico presidente del Perugia Luciano Gaucci, capace di trasformare la sua squadra in una multinazionale in cui militò anche il terzo figlio del dittatore libico Gheddafi.
E poi il ruspante mediatore e poi presidente del Pisa Romeo Anconetani, il “signor 5%”, colui che, mezzo secolo prima di Mino Raiola, fece del guadagno a percentuale sulla vendita di un giocatore un’arte. Squalificato a vita e poi riabilitato, una volta Anconetani, davanti agli occhi allibiti di giornalisti e ospiti del Gallia, prese letteralmente a schiaffoni il povero presidente del Napoli Ferlaino, reo di aver acquistato un calciatore della sua scuderia senza averlo prima interpellato. E come dimenticare Edmeo Lugaresi, il presidente del Cesena che, al termine di una trattativa particolarmente laboriosa, affermò: “abbiamo messo una “checca” sulla torta della nostra squadra”. E ancora: da Walter Crociani, in arte Croc, fasciato nel suo abito bianco, occhiali di tartaruga, una sorta di computer vivente che annotava su appositi quaderni a quadretti le descrizioni di tutti giocatori e che era solito rispondere a chi gli chiedeva un giudizio su un calciatore, “Testa alta, due piedi”, al boss dei boss, LuckyLuciano Moggi, un ex ferroviere diventato per anni padrone incontrastato di quello strano luna park; da Adriano Galliani, con le sue percentuali di fattibilità di un affare sempre vicine al 99%, per arrivare all’attuale “fenomeno” Mino Raiola.
Il boss del mercato
Il calciomercato: un caravanserraglio di varia umanità diventato fenomeno di costume. Una fiera dei sogni che ogni anno appassiona milioni di tifosi. Trattative febbrili, colpi annunciati e affari sfumati per un soffio, in un palcoscenico affollato di dirigenti, giornalisti, mediatori, procuratori, direttori sportivi, calciatori, nani e ballerine. Un mondo a parte dove trova pieno compimento quella particolare fascinazione che lo scrittore, nonché acceso tifoso madridista, Javier Marías, definisce una sospensione temporanea dell’incredulità. Una sorta di rito collettivo con le sue liturgie laiche che si celebrano nel corso di maratone televisive con aggiornamenti in tempo reale. E come ogni rito che si rispetti, anche il calciomercato ha i suoi officianti. Gli Alfredo Pedullà, i Gianluca Di Marzio ma, prima di loro, la buon’anima di Maurizio Mosca. Una persona schiva e perbene che si è trasformata in macchietta televisiva per assecondare le nostre illusioni. Perché poi, confessiamolo, a chi di noi non sarebbe piaciuto essere al suo posto e giocare per una volta alla Macchina della Verità?