La sfortunata storia di Gigi Meroni, il calciatore beat.
Torino, 15 ottobre 1967. Si disputa la quarta giornata del campionato di serie A. Allo stadio Comunale è in corso il match fra Torino e Sampdoria. In seguito, il roccioso difensore della Sampdoria Giorgio Garbarini sarebbe stato soprannominato Custer – per lo spirito combattivo che mostrava nel lottare come ultimo baluardo della difesa – ma in quel pomeriggio ottobrino di mezzo secolo fa, un folletto con la maglia numero sette lo stava facendo ammattire. L’allenatore blucerchiato, Fuffo Bernardini, aveva raccomandato a lui e a tutta la difesa di prestare molta attenzione ai numeri dell’ala granata. “Occhio, ragazzi”, aveva detto “il dottore”, “ché quello lì è forte, forte per davvero”.
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Ore 15,23 (il Torino conduce per una 1-0 grazie a una rete realizzata da Nestor Combin).
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Agroppi, che proprio quel giorno esordisce in serie A, recuperata palla a centrocampo, serve con un rapido passaggio Meroni. L’ala granata controlla la sfera, si accentra, sembra svolazzare sul terreno di gioco; si porta appresso un paio di difensori blucerchiati, poi, all’improvviso, fa partire un gran tiro. La palla supera di poco la traversa della porta difesa da Battara. Dovevo tenerla bassa!, si dice Meroni. Scuotendo la testa, l’ala granata ritorna a centro campo, e in quel momento, nella sua mente, si accendono i ricordi. Si rivede bambino, quando, insieme al fratello Celestino, spediva decine di palloni contro la rete di protezione dell’oratorio, nella sua Como. “Riprovaci, Luigino”, lo esortava don Giorgio Ratti, “hai talento, tu, riprovaci, dai”.
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Era cresciuto giocando lì, Gigi Meroni. Nel piccolo campetto dell’oratorio di San Bartolomeo. Un campetto lungo quaranta e largo venti, delimitato da un muretto cementato alto poco meno di un metro. Nulla è cambiato, oggi, se non per il tappeto in erba sintetica che ha sostituito la terra battuta. In quel rettangolo, le prodezze del ragazzino non passarono inosservate. Gli osservatori dell’Inter ebbero l’occhio lungo, ma Gigi aveva solo quindici anni, e sua mamma, la signora Rosa, non se la sentì di mandarlo da solo agli allenamenti in provincia di Milano. Così arrivò il Calcio Como, che accolse fra le sue fila il campioncino in erba e lo fece esordire in serie B. Era il 14 maggio 1961. Poi, dopo una brillante stagione da titolare nelle fila lariane, in cui mostra le stigmate del predestinato, ecco la chiamata del Genoa, la gloriosa squadra ligure che, a quei tempi, era seconda per titoli nazionali solo alla Juventus.
L’ala comasca trascorse due anni nella città ligure. All’inizio il suo fisico gracile lasciò perplesso l’ambiente genoano, e l’allenatore Renato Gei accantonò spesso Meroni in panchina. Poi, dopo le continue prodezze in allenamento, l’allenatore si convinse a lanciarlo in squadra nelle ultime partite del campionato 1962/63. Meroni non tradì le attese, e diede un contributo decisivo alla conquista della salvezza siglando il suo primo gol in serie A nella decisiva sfida casalinga contro il Lanerossi Vicenza il 5 maggio 1963. Nella stagione successiva il suo impiego diventò assiduo e, sotto la guida dell’allenatore argentino Beniamino Santos, le sue giocate spettacolari gli valsero la chiamata nella nazionale B allenata da Galluzzi, ma con la supervisione di Edmondo Fabbri, commissario tecnico della Nazionale maggiore.
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Quella del campionato 1963/64 fu un’annata magica, per l’ala comasca, che entrò nel cuore dei tifosi del Grifone con prestazioni esaltanti condite da numeri da autentico funambolo. Come quando il Genoa ospitò la Fiorentina. Era il 27 ottobre 1963, e Gigi firmò una magnifica doppietta al portiere della nazionale Albertosi. Poi, durante l’estate, arrivò il clamoroso passaggio al Torino di Pianelli e Rocco, decisi a costruire una grande squadra partendo proprio da lui, la ventunenne ala comasca, giudicata la miglior giovane promessa del calcio italiano.
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Ore 15,38 (il risultato è ora di 2 -1 per il Torino. Al pareggio doriano siglato da Francesconi, ha risposto ancora un Combin in giornata di grazia).
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Meroni è defilato sulla destra, sulla tre quarti di campo. In quella posizione riceve un passaggio dall’agile Moschino. L’ala alza la testa, ma vede Carelli stretto nella morsa di Dordoni e Vincenzi. Allora punta Garbarini, lo salta sul lato sinistro del difensore dopo aver fatto finta di accentrarsi, si invola sulla fascia ma, tutt’a un tratto, sente una botta alla caviglia e si ritrova a ruzzolare sul terreno. Si sente il fischio dell’arbitro Torelli, e si vede Garbarini allargare le braccia verso i compagni, come per dire che non si può fermare se non così, quel demonio. Ancora a terra, soccorso dal massaggiatore, Meroni rivolge uno sguardo alla tribuna. Vuole tranquillizzare Cristiana, dirle di stare tranquilla, che non è niente. Gli pare di scorgerla, in piedi, la sua Cristiana. Se Renzo e Lucia avevano spopolato nello sceneggiato televisivo di Sandro Bolchi I Promessi Sposi che, pochi mesi prima, aveva fatto registrare un ascolto medio di diciotto milioni di telespettatori, in quell’autunno di 50 anni fa c’era un’altra coppia che entusiasmava gli italiani. Erano Celentano e Claudia Mori. Cantavano “Siamo la coppia più bella del mondo”.
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Anche loro, Gigi e Cristiana, si sentivano la coppia più bella del mondo. Aveva fatto gol nel cuore del calciatore, la diciottenne Cristiana Uderstadt. Lavorava a Milano, in un Luna Park nei pressi di Porta Garibaldi. Era una bellissima ragazza bionda di origini polacche. Si conobbero a Genova, dove Cristiana aveva raggiunto lo zio che gestiva una pista di go-kart. Nella città ligure sbocciò il loro amore. Un amore appassionato e travagliato. Come in un romanzo. Luigino era una riserva della squadra rosso-blu, mentre Cristiana si spostava di continuo, a seguito di quel popolo nomade e romantico che sono i giostrai. E durante una di queste tappe, un aiuto regista di Vittorio De Sica, impegnato a girare le riprese del film Boccaccio 70 – alcune scene erano ambientate nel mondo circense – si invaghì di Cristiana e le chiese di sposarlo. Lei si fece affascinare dalle promesse di carriera nel platinato mondo del Cinema e, alla fine, acconsentì. Ma dopo due mesi scappò, e tornò dal suo Luigino. Questa volta per sempre.
Ore 16,10 (il match è ora in parità: 2-2. La Samp ha pareggiato con l’estroso Bob Vieri, papà del futuro bomber).
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Dopo un contrasto vinto a centrocampo, Puia si libera di Salvi e lancia in profondità Meroni, scattato con perfetto sincronismo alle spalle dei difensori. L’ala addomestica la sfera di sinistro, si accentra vanamente tallonato da Garbarini e, sempre di sinistro, con l’interno del piede, fa partire un pallonetto beffardo che supera di poco l’incrocio dei pali opposto, a portiere battuto. Gigi alza gli occhi al cielo e si porta le mani sul volto. Questa volta non gli è riuscita la magia del giugno dell’anno prima, quando, subentrato con la maglia azzurra della Nazionale a Sandro Mazzola, aveva mandato in visibilio il pubblico dello stadio Comunale segnando un gran gol all’Argentina e ipotecando, di fatto, la maglia numero 7 ai Campionati Mondiali che si sarebbero disputati in Inghilterra. L’ambiente della Federazione non gradiva, per usare un eufemismo, quel beat anticonvenzionale, e per molti la sua convocazione era una sorta di provocazione. Un po’ come chiedere ad Andreotti di fare un discorso sui Black Panthers. Il commissario tecnico Edmondo Fabbri, però, non poté fare a meno di convocare l’estroso attaccate, vista l’enorme attesa dei tifosi per le prestazioni di quel talento per cui il Napoli era disposto a versare 500 milioni nelle casse del Torino.
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Tutti sappiamo come andò a finire la sciagurata spedizione in terra d’Albione. Meroni fu schierato nella seconda partita contro la Russia, mentre non giocò quella decisiva contro la Corea del Nord, che decretò la nostra clamorosa eliminazione. Al ritorno, pagò per tutti. Per lui scattò l’ostracismo della Federazione supportata dai quotidiani sportivi, che attaccarono più volte lo stile di vita di quel calciatore ribelle chiamandolo vagabondo, hidalgo e zingaro. Una sorta di rancore sordo che si manifestò in effige nello sputtanamento a mezzo stampa. D’altra parte, quale capro espiatorio migliore di quel tipo trasgressivo e provocatorio che simboleggiava il rifiuto e la critica dello status quo? E insomma c’è quel tizio che sembra un hippy: non va bene. Sembra di sentirli parlamentare nelle segrete stanze, i custodi del perbenismo d’accatto, e affibbiare a Meroni la lettera scarlatta della trasgressività. E allora il grido “Corea, Corea”, e i pomodori tirati dai tifosi all’arrivo della spedizione azzurra all’aeroporto di Genova di ritorno dall’Inghilterra, si sublimarono nella decisione dei vertici federali di escludere Meroni dalle successive convocazioni. Per il calciatore beat le porte della nazionale si chiusero per sempre.
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Ore 16,27 (il risultato è ancora bloccato sul 2-2).
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C’è un lungo rilancio di Bolchi dalle retrovie a saltare il centrocampo. La palla plana docile sui piedi di Meroni, appostato sul bordo sinistro dell’area sampdoriana. In quegli attimi non c’è il tempo per pensare, e l’istinto porta Gigi ad accentrarsi, poi cercare un pallonetto di destro nell’angolo più lontano della porta difesa da Battara. Si sente un boato del pubblico, ma la palla esce di un soffio. Pochi mesi prima, il 12 marzo, San Siro aveva ammirato la stessa azione, e quella volta la magia di Meroni era stata coronata da uno dei gol più belli che si siano visti su un rettangolo verde. Gigi aveva ricevuto la palla sul limite dell’area, aveva effettuato uno scarto secco col piede destro su Giacinto Facchetti portandosi la sfera sul fronte sinistro dell’area di rigore. Poi, dopo un arresto improvviso, sempre col piede destro, si era spostato la palla cercando di recuperare una posizione più centrale; a quel punto i fotogrammi delle riprese televisive immortalarono il piccolo calciatore comasco con davanti il gigante di Treviglio e, poco dietro, Sarti, pronto a intervenire.
. Che cos’ è il genio? È il dio della natura umana, come diceva Orazio, il daimon che ci guida, l’aspirazione al gesto eccentrico e straordinario. Un po’ come vedere un’autostrada dove tutti scorgono un sentiero di montagna. Ecco, in quel pomeriggio di sole primaverile, Meroni trovò la sua autostrada pensando di calciare un pallone impossibile che, dopo aver quasi circumnavigato Facchetti, si librò con una traiettoria a uscire per poi planare, beffardo, come un aeroplanino di carta, all’incrocio dei pali della porta dell’esterrefatto Sarti. Quel tiro fuori dagli schemi, quasi proprietà di un altro calcio, simboleggiava lui, Gigi Meroni. Ora guarda la panchina Gigi. Non vede più seduto il paròn, Nereo Rocco, colui che sopportava le sue mattane come un padre bonario. Come quelle volte in cui Cristiana si presentava agli allenamenti spacciandosi per sua sorella; o come quando scappava dal ritiro per incontrare la sua “bella” protetto dal compagno di stanza Fossati. Rocco stava al gioco, perché sapeva che poi, sul campo, Meroni avrebbe regalato alla folla qualche magia delle sue, capace di giustificare da sola il prezzo del biglietto.
Ore 16,37 (dopo attacchi arrembanti, il Torino si è portato in vantaggio con Moschino. In seguito, lo scatenato franco-argentino Combin fisserà il risultato sul 4-2).
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Ormai l’incontro volge al termine, e il pubblico, soddisfatto, comincia ad abbandonare gli spalti dello stadio Comunale. All’oratorio, però, si gioca fino all’ultimo secondo utile, fino quando non fa buio, e magari c’è mamma Rosa che ti è venuta a prendere per portarti a casa a fare i compiti. E allora se sei Gigi Meroni daresti tutto per un’altra azione. Magari un dribbling. Sì, un ultimo dribbling. Garbarini di nome fa Giorgio e, guarda un po’, proprio nel Como finirà la sua onorata carriera. È stanco, ha corso per tutta la partita cercando di stare dietro a quel folletto imprendibile e ora, come i suoi compagni in maglia blucerchiata, non aspetta altro che il fischio finale dell’arbitro. Meroni gli si fa incontro palla al piede. Un’ultima giocata, chiedono i suoi occhi. Un ultimo dribbling, reclama il suo cuore. Ecco: cos’è il dribbling, in definitiva, se non uno scarto alle convenzioni? Una pernacchia al conformismo degli schemi, e un inno alla fantasia e alla libertà espressiva. Perché era un uomo libero, Gigi Meroni. Un giovane che visse in una sorta di tempo proattivo, in anticipo sullo Zeitgeist che pervaderà il Sessantotto. Una personalità complessa che interpretò l’irrequietezza di una generazione di ragazzi cresciuta in un’epoca attraversata da inarrestabili aneliti di cambiamento ed emancipazione.
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Scartare avversari sul campo è un po’ un mestiere d’artisti; avanguardie estetiche incaricate di entusiasmare le folle rompendo schemi e cliché. Fu questo, Gigi Meroni. Un artista prestato alla vulgata pedatoria. Un esteta alla costante ricerca del bello. Sia nel rettangolo verde che nella vita. Sia quando ubriacava di dribbling le difese avversarie svolazzando sul prato verde come una farfalla imprendibile, sia quando dipingeva o creava il proprio inimitabile abbigliamento nella mansarda bohémienne di piazza Vittorio, a Torino, dove conviveva con Cristiana e dipingeva i suoi quadri. Aveva il sogno di diventare stilista di moda, una volta appese le scarpe al fatidico chiodo. In quell’Italia perbenista e bigotta sembrava un rivoluzionario, il Meroni. Era un estroso, scrivevano i giornali, quasi in senso dispregiativo. Estro deriva dal greco oistros, “tafano”. Simboleggia la puntura, l’eccitazione provocatoria. Ed erano piccole punture di libertaria provocazione, quelle che Meroni infliggeva al flaccido corpaccione dell’Italia benpensante di allora: era un pittore, portava i capelli lunghi e i basettoni, girava per Como con una gallina al guinzaglio, guidava una Balilla nera e conviveva con una donna sposata.
Ore 21,30, corso Re Umberto.
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La partita è finita da un pezzo. Gigi Meroni e l’inseparabile amico Fabrizio Poletti si stanno dirigendo verso la mansarda di piazza Vittorio. Gigi, però, si accorge di non avere con sé le chiavi. “Fabrizio, ho dimenticato le chiavi”, dice, “devo trovare un telefono e chiamare Cristiana. Le avrà lei, sono sicuro che si è dimenticata di lasciarle in portineria”. “Be’, andiamo al bar Zambon, che è aperto, così la chiami da lì”, risponde il terzino. I due calciatori entrano nel bar. Ne escono dopo pochi minuti. C’è traffico. Attraversano la strada e si fermano sulla linea di mezzeria. Arriva un’auto a velocità sostenuta, Gigi fa un passo indietro, ma in quel momento una Fiat 124 proveniente dall’altro senso di marcia lo colpisce in pieno scaraventandolo sulla corsia opposta. Lì sta arrivando un Appia che travolge il calciatore non lasciandogli scampo. A guidarla, un diciannovenne che aveva il poster di Meroni appeso in camera. Si chiama Tilli Romero. Trentatré anni dopo diventerà il Presidente del Torino Calcio.
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La notizia della morte di Meroni cominciò a girare dopo le 22.40. Alla Domenica Sportiva, Enzo Tortora si rifiutò di annunciarla in diretta televisiva. Chi era presente all’ospedale Mauriziano, dove lo sfortunato calciatore venne operato d’urgenza in un disperato tentativo di salvargli la vita, udì Cristiana urlare disperata alla notizia del decesso. Gli italiani lo seppero il giorno dopo. Il corpo di Gigi Meroni fu composto nella sede sociale del Torino che, diciotto anni dopo Superga, pativa un’altra tragedia umana e sportiva. La squadra granata sfilò al completo. Nestor Combin non riuscì a trattenersi e diede un lungo bacio sulla fronte del suo sfortunato compagno. La domenica successiva lo ricordò a suo modo, schiantando con una memorabile tripletta la Juventus. Il 17 ottobre Torino salutò per l’ultima volta Gigi Meroni nella chiesa dei Santi Angeli Custodi, dove la bara del calciatore beat venne omaggiata da più di trentamila persone.
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È durato una breve stagione il volo di Gigi Meroni, “la farfalla granata”, secondo una felicissima definizione coniata da Nando dalla Chiesa nel suo omonimo libro. Per alcuni anni è vissuto in un mondo a parte, Meroni. Lui, e la sua Cristiana. E ha giocato un altro calcio. Un passaggio fugace ma luminosissimo, il suo. Come quello di una cometa. Praticamente un attimo. Ma ditemi voi se vi è sembrato poco.
Foto copertina by Immagilario Como di Augusto Santini