Ci sono voluti sette anni al Manchester City di Guardiola non per giocarsi la Champions o per vincerla, avrebbe potuto trionfare anche nelle scorse stagioni e vedremo se lo farà in questa, in cui è (a dir poco) strafavorito; ci sono invece voluti sette anni al Manchester City per diventare la squadra perfetta, sette anni a Guardiola (e oltre un miliardo di euro di soli cartellini) per plasmare la rosa light blue a sua immagine e volontà. C’è poco da parlare, comunque, della partita di ieri e dopo la partita di ieri: un dominio totalizzante, radicale, inesorabile, esteso nello spazio e nel tempo.
Si potrebbe scrivere dei singoli, di Bernardo Silva e del solito Kevin De Bruyne, di Gundogan e di Courtois – paradosso: il portiere della squadra sconfitta per 4-0 è stato con Bernardo Silva il migliore in campo, e già questo basterebbe a riassumere il match. Ma è come se da una parte ci fosse stata una squadra di 11 giocatori, il Real Madrid, e dall’altra parte un organismo perfetto ben superiore alla somma dei suoi individui, che si muoveva come un solo e formidabile uomo. Una squadra organica, rotonda, perfetta in ogni fase, dominante come solo il Barcellona 2.0 di Guardiola era stato, quello del 2011.
Più completa ancora di quel Barcellona, meno forte tecnicamente nei singoli magari, ma con più frecce al suo arco.
Due anni fa scrivevamo che Guardiola non voleva più essere Guardiola: non più il profeta del tiki-taka, l’ideologo del falso nove, il riferimento dottrinale di mezzo mondo. Mantenendo comunque la sua impronta, e la sua ossessiva ricerca del dominio e della perfezione, Pep da Santpedor si è evoluto: ha capito che come centravanti un Erling Haaland è ben più efficace dello spazio, e che una rosa con i calciatori del City può e deve essere letale, molto più verticale di quanto fossero mai state le sue squadre. Ma anche che una partita può essere fatta da tante partite al suo interno: partite nella partita che il City di Guardiola gestisce alla perfezione, con una superiorità adulta e quasi onnipotente.
Questa squadra sa pressare, asfissiare e soffocare come nei primi trenta minuti contro il Real, un po’ alla Barcellona vecchia maniera, con meno tecnica ma con ancora più atletismo e fisicità; ma sa anche abbassarsi e difendere senza concedere nulla, neppure uno spiraglio, al massimo qualche tiro da fuori; sa infine ripartire con contropiedi che abbinano tecnica, intensità e velocità, e che ribaltano in pochi secondi il fronte con imbucate formidabili. Questo City ad oggi non ha punti deboli tecnici o tattici. E anche quelli psicologici, che si esprimevano in psicodrammi inimitabili, specchio del suo allenatore, sembrano essere un lontano ricordo.
Il Manchester City non era solo la squadra favorita di questa Champions, era LA squadra di questa Champions League. Di un’altra categoria rispetto a tutte le altre. E come detto di un altro livello, di un livello successivo rispetto alle stesse squadre di Guardiola. Oggi Pep è diventato un allenatore totale, non solo l’apice del “sacchismo”, di una certa “scuola olandese” – tanto per usare etichette limitanti ma utili a spiegarsi – e più in generale del calcio dominante; non solo quello ma il rappresentante di un calcio totale nel senso che ha tutto al suo interno: pressing, solidità, possesso, intelligenza, attacco, difesa, verticalità, orizzontalità.
Certo, ci sono voluti oltre un miliardo e più di sette anni. Quante Champions avrebbe vinto Ancelotti con un budget trasferimenti del genere e un passivo di circa 650 milioni nelle casse del club? Quante ne avrebbe vinte Mourinho, magari anche Allegri? Eppure oggi il punto non è questo. Pep è rimasto sette anni al City non per arrivare a questo risultato, una finale di Champions che già aveva disputato (e perso alla Guardiola, ovvero incartandosi) bensì per giungere a questo livello di gioco:
quello di una produzione neoclassica che sfiora e, forse, contribuisce a definire il canone stesso della perfezione.
Oggi non si può fare tanto i risultatisti, sia perché quella del City è una bellezza troppo abbagliante, sia perché questa squadra ha ricomposto la dicotomia (ottusa) giochisti/risultatisti: l’ha superata come in una sintesi hegeliana che racchiude in sé gli opposti, la tesi e l’antitesi. Se dovesse laurearsi campione d’Europa, questa Champions a livello di storia del calcio non avrà lo stesso peso, ad esempio, di quella di un Di Matteo al Chelsea: certo uno vale uno per i tifosi, per gli annali, per le statistiche, ma uno non vale uno per il valore nella storia di questo sport.
A fine partita Alessia Tarquinio ha chiesto ad Ancelotti spiegazioni, possibili motivazioni per la batosta subita. Ha provato a chiamare in causa crolli psicologici o errori di approccio. Ma Ancelotti con molta lucidità ha risposto che no, non c’era stato un crollo dei suoi, non era stata colpa del suo Real. Certo, “si poteva gestire un po’ meglio la palla” però dall’altra parte, semplicemente, c’era un avversario più forte, troppo (più) forte. Ci si può solo arrendere, a parole e sul campo, a questo City.
Una cosa che però non deve fare l’Inter in vista del 10 giugno. Se i nerazzurri vogliono avere una possibilità dovranno giocare la partita della vita, e comunque potrebbe non bastare; la sensazione, netta fino quasi a divenire una certezza, è che questo City possa perdere solo con le proprie mani o per un intervento prepotente del caso. Eppure, ci siamo innamorati del calcio perché il pallone, nonostante tutto, resta rotondo; e di Davidi battere Golia ne abbiamo visti tanti.
Se è vero che la perfezione non è di questo mondo allora, e che chiunque ha un punto debole, a Istanbul tutto può succedere. Almeno in teoria. In pratica, che gli interisti allestiscano gli altari alle Moire del calcio e inizino a pregare. Ce ne sarà veramente bisogno.