“Il realismo magico si verifica quando, in un’ambientazione realistica e minuziosamente dettagliata, s’introduce un elemento troppo strano per essere credibile. Non per niente è nato in Colombia”. Nessun calciatore colombiano potrebbe mai essere paragonato a un altro, ogni giocatore, preso singolarmente, è un concentrato di emotività e sofferenza. Sono unici, stravaganti e discontinui, sempre seduti su un’oscillante altalena che dall’Olimpo è pronta a scaraventarli nel loro passato, dove l’acqua e il sangue spesso si fondevano. D’altro canto, nascere nella seconda metà degli anni novanta intorno alla 4G, l’autostrada che percorre tutta la regione di Antioquia, vuol dire dover scegliere sin da subito da che parte stare.
Lo spartiacque della storia colombiana ha un nome e un cognome: Hernan Botero. Nel 1985 il panorama criminale colombiano era in fase di consolidazione, quella polverina bianca che tanto piaceva agli yankees cominciava a far fruttare qualche pesos ai primi narcotrafficanti, Botero fu il primo a ripulire il proprio denaro grazie a un particolare detergente, ottenuto dal binomio che in quel periodo detterà legge in gran parte del Sud America, calcio e cocaina. All’epoca, la maggior parte della popolazione vive al limite della soglia di povertà; il calcio rappresenta l’unica fonte di svago per i ragazzi dei barrios. Tuttavia, la scalata al vertice del professionismo resta un progetto difficilmente realizzabile. Botero è scaltro nel comprendere il potenziale del fenomeno, ma saranno gli Orejuela, e soprattutto Pablo Escobar, a massimizzare il processo del narcofùtbol.
In mezzo alla propria gente
Nella storia contemporanea il pallone è stato più volte strumento di propaganda, dunque i narcotrafficanti colombiani, che ricoprirono un importante ruolo politico nella società, lo sfruttarono a proprio vantaggio. Rilevare un club senza dubbio significava aumentare il fatturato del cartello, ma non solo a livello economico, l’influenza mediatica del boss raggiungeva picchi impressionanti. Come veri e propri sindaci, Escobar e gli Orejuela competevano con e senza le armi, per affermare la potenza delle rispettive città, Medellìn e Cali. Gonzalo e Miguel Rodrìguez Orejuela, antagonisti perfetti dell’istrionico Pablo, più businessman che criminali, affabili strateghi dal basso profilo. Dapprima tentano di impadronirsi del Deportivo Cali, senza successo, virano così sull’America, la compagine della classe proletaria. Partire dal basso, persuadere chi di alternative non ne ha, è il comun denominatore dei signori della droga, che si sostituiscono al ceto dirigente come Robin Hood in grado di risollevare le sorti dei nullatenenti, ripulendo inoltre la propria immagine.
I numeri sono impressionanti: in dieci anni 4 titoli nazionali e tre finali di Libertadores disputate consecutivamente, record tuttora imbattuto nel continente. Gli USA riescono, nel 1995, a interrompere l’egemonia dei rossi grazie alla celebre Lista Clinton. Uno strumento per minacciare l’economia di tutte le aziende che traevano profitti illeciti, sanzionando i sospetti persino con l’embargo commerciale. Un piccolo cameo all’interno di questa enorme e inquietante fiction se lo ricavano anche i Millionarios, congiunto di Bogotà dove milita La Saeta Rubia, Alfredo Di Stefano, prima della consacrazione al Real. Il benefattore, Gonzalo Gacha alias El Mexicano, nonostante abbia permesso la conquista di due campionati, è stato di recente oggetto di un’ondata revisionista che ha portato alla rinuncia, da parte della dirigenza, dei titoli vinti in quell’oscuro passato. Gacha era un ingranaggio della tremenda macchina azionata da Pablo Emilio Escobar Gaviria, re di Medellìn.
“Pablo ha sempre amato il calcio. Le sue prime scarpe furono da calcio, e morì in scarpe da calcio”.
Questo dichiarò la sorella Luz Maria non molto tempo fa.
Famiglia Escobar
Escobar era un appassionato di calcio, forse l’unico ambito in cui i soldi lasciavano, a volte, il posto alle sue naturali emozioni. Nelle zone da lui riqualificate costruì circa 50 impianti sportivi, iniziativa logicamente utile al riciclaggio. Le banconote in possesso erano diventate troppe, nessun bidone era più in grado di contenerle e persino la pesatura diveniva difficoltosa, e per un megalomane cronico come Pablo, possedere la squadra principale di Medellìn significava essere un leader indiscusso. Alla presentazione come presidente dell’Atletico Nacional si presenta in grande stile, scende da un elicottero parcheggiato al centro del terreno di gioco. L’acquisto del Nacional rappresenta per Escobar una sorta di rivincita, il sogno di diventare Primo Ministro è definitivamente sfumato, dopo che la Camera ha pubblicato la foto segnaletica di un suo vecchio arresto, abbastanza da smascherare il sottile velo che ricopriva, anche nella cosa pubblica, la sua figura. Il climax scenografico che accompagna la vita di Pablo Escobar trova la massima espressione nella finale di Coppa Intercontinentale 1989, dove solamente il sinistro di Chicco Evani potrà permettere al Milan di spuntarla sull’Atletico di Pacho Marturana.
Quel rigore segnerà la discesa agli inferi del Padrino del Male, un breve istante che Pablo può guardare soltanto dalla Catedral, la sua prigione-resort personale. Il peso che ha avuto la reclusione del padron in tale struttura non era preventivabile, e soprattutto definirà il destino calcistico della Colombia. Marturana, il condottiero che trascinò verdolagas a un passo dal trionfo, fu uno dei pochi a passare immune dal clan Orejuela alla corte di Medellìn. Quando in tutto il Paese lo sport è costretto a fermarsi, perché l’arbitro Alvaro Ortega è stato ucciso dopo un gol annullato alla squadra di Pablo, la Federazione punta sulla sua integrità per guidare i Cafeteros alla qualificazione mondiale. Maturana è l’unico sprazzo d’integrità nel marciume colluso della Colombia, ed è deciso nel condannare i calciatori legati al panorama criminoso. Inizia da Higuita, il portiere dello scorpione a Wembley che amava festeggiare le proprie prodezze durante i festini della Catedral. L’esclusione dal gruppo è immediata. Valderrama, Asprilla e Lionel Alvarez sono la sana spina dorsale che guida l’epoca d’oro della selezione.
Pibe Valderrama, oggi
Personaggi sui generis, uno “stregone” e la falsa illusione, componenti che nel 1993 s’imprimono, come in un libro di Gabo Garcia Marquez, nell’esausto popolo locale. La DEA ha ucciso Pablo Escobar, rimuovendo l’alfiere della scacchiera malavitosa. Un vento di speranza che giunge al Monumental di Buenos Aires, nella tana del River il punteggio segna Argentina 0-5 Colombia. La Nazionale è alla fase finale del campionato del mondo statunitense. Il ct affida la fascia di capitano ad Andrès Escobar, il cavaliere con la numero 2 sulle spalle. A discapito delle previsioni, e delle relative scommesse, la squadra parte malissimo, giocandosi tutto all’ultima giornata contro gli Stati Uniti. Sul pareggio, un innocuo cross viene respinto male da Andres, la sfera finisce alle spalle del portiere e la Colombia è eliminata dalla kermesse.
La delusione è palpabile, eppure qualcuno confida la rinascita generale proprio in quei ventitre. Non vale lo stesso per chi ha preso le redini di Pablo. Per scacciare la tristezza, Andres si reca presso il locale “Padua” di Medellìn, nel cui parcheggio è raggiunto dai proiettili di Humberto Castro, uno di quelli che aveva perso ingenti somme puntate sul passaggio della squadra al mondiale. In qualsiasi altro posto del mondo, un evento del genere avrebbe segnato la fine. L’elemento troppo strano per essere credibile si chiama Ivan Ramiro Cordoba, e prenderà la 2 di Andrès, per onorare un cavaliere e giustificare la provenienza del realismo magico.
Sempre più Paesi costruiscono rappresentative impostate su giocatori che non sono nati (nè cresciuti) nei confini nazionali. Convenienza o processo "fisiologico"?