Siamo stati a Città del Messico tra calcio, vita e morte.
Difficile dire con esattezza cosa ci si aspetti dal Messico. Nel momento esatto in cui credi di conoscerlo scopri di averne capito poco e nulla: è inevitabile d’altronde, per una Nazione estesa quanto l’Europa. È un luogo che cresce in continuazione, almeno da quando negli anni ’90 il Paese ha aderito al NAFTA, patto commerciale congiunto con Canada e USA. Sancendo l’accordo multilaterale il Messico si proiettava in un’epoca nuova fatta di meno sombreri e più infrastrutture, rinunciando a chi restava indietro in favore dei nuovi potentissimi oligarchi.
Tra questi e l’esplosione calcistica messicana c’è un nesso profondo. Un nesso tecnico ma soprattutto economico.
A velocità inimmaginabile il calcio sudamericano si è ritrovato dinanzi a un gigante. Di colpo, al palcoscenico europeo, i talenti argentini e brasiliani hanno preferito la Liga MX. Ora, se c’è un luogo che riassume l’incontrollabile crescita calcistica del Paese quello è senza dubbio Città del Messico. Parliamo di un conurbano da oltre 20 milioni di abitanti suddiviso in colonie e a loro volta in alcaldias, vale dire città all’interno di una stessa città. Percorrendo in metro l’intera capitale vi renderete conto di quanto la differenza superi le vostre aspettative. Se scendete alla fermata sbagliata, difficilmente potrete raccontarlo – la recente, triste e assurda, vicenda di un nostro concittadino lo dimostra.
Proprio quando sembra difficile scindere la CDMX da una qualunque metropoli statunitense, riecheggia uno dei celebri versi di Octavio Paz, illustre penna messicana e premio Nobel:
“Una civiltà che rifiuta la morte, finisce per negare la vita.”
La vena autocritica dell’intellettuale trova conferma in quei barrios di Città del Messico che credi esistano solo nelle serie tv, uno su tutti Tepito. Palla ferma fra i piedi, sguardo all’avversario e un saltello apparentemente inutile per andare al dribbling, ve la ricordate la Cuathemiña? Il gesto tecnico inequivocabilmente rivendicato da Cuathemoc Blanco, dieci per eccellenza del futbol messicano con tanta abilità e poco allenamento in corpo.
Ecco, Blanco ha conosciuto il calcio proprio in questo quartiere, senza disdegnare il resto del catalogo che offre Tepito e in particolare la sua Uniòn. La UT, così denominato il cartello locale, ha accompagnato, e lo fa ancora, le vite di coloro che vengono spediti dal padre eterno in una parte inspiegabile della nostra terra. Se si dovesse additare la Uniòn Tepito solo come organizzazione criminale, però, si cadrebbe in difetto: trattasi certamente di narcotrafficanti che gestiscono in toto l’area, eppure le uniche scarne opportunità possibili ai giovani vengono ottemperate dal cartel. A questo fatto, bruto e crudo come la morte, non si sfugge.
Funzione sociale, si diceva. Si pensi al campetto del Deportivo Maracanà o alla palestra “Huitlacoche Medel”, dove pugili del calibro di Pipino Cuevas hanno talvolta iniziato la scalata verso il titolo mondiale. Riprendendo Paz, la morte diventa qui un concetto completamente distorto, fuso tra misticismo e occultismo. A Tepito il passaggio ad altra vita viene assunto come un traguardo meritocratico, e la Santa Muerte chiama coloro che l’hanno abbracciata dalla nascita.
Paradossalmente, la vita vale meno della morte. E il culto riservato a tale scheletro vestito da vergine disegna il Messico. Alla Santa si prega per chi rischia il carcere o ripercussioni da bande rivali. La morte è la cura, non la malattia. Uscire dal barrio bravo per un ragazzo ha lo stesso significato di passare il confine con gli Stati Uniti, significa scappare da uno stato basato sull’assuefazione; sia il crack o una statua, un’arma o il sangue, non importa.
A proposito di costante studio (e ricerca) della morte.
A Tepito si diventa dipendenti da una normalità illogica, che nessuna divisa si azzarda a sporcare. Chi sogna di cantare l’inno nazionale con la classica mano distesa al petto non cerca orizzonti lontani, ma soltanto il tren ligero. In trenta minuti, un aspirante calciatore messicano passa dai kalashnikov al santuario del calcio mondiale; lo Stadio Azteca.
Riprendiamo gli oligarchi di cui sopra. Uno di questi si chiama Emilio Azcarràga Jean ed è il proprietario dell’enorme Televisa messicana, tramite cui è giunto alla prima squadra del campionato: il Club America. Secondo una distorta normativa, Emilio Azcarràga in quanto proprietario dell’America è automaticamente diventato padrone dell’Azteca in congiunta al Cruz Azul, l’altro team capitolino. E con “padrone” intendiamo cogliere il senso latinoamericano del termine. Detto per inciso, la Televisa gestisce tutti i canali televisivi eccetto lo sport, esclusiva ESPN e Fox.
Anche quando è vuoto, l’Azteca odora di almanacco storico calcistico. Dalla targa di Italia Germania 4-3 al punto esatto in cui Maradona sbeffeggiò gli inglesi, l’impianto sembra una congiuntura di spettacolo e pallone, costellato di palchetti che non troverete nemmeno nei teatri della Premier League. Appunto, incrocio di vita e morte, fuse l’una nell’altra nel tempo che tutto regge. Indubbiamente, soltanto salirne le tribune vi costerà polmoni interi considerati i 2.200 metri d’altitudine. Se ne renderanno conto i convocati al mondiale 2026 la cui sede verrà tripartita proprio tra le nazioni del NAFTA, Stati Uniti, Messico e Canada. Presumibilmente, per la terza volta una finale del campionato del mondo si terrà all’ombra dell’Azteca.
Quando sei convinto di aver assaporato il Messico nella sua “interezza” rifletti su cosa questo incredibile Paese riesca a celare. Lasciandomi alle spalle il santuario dell’Azteca mi sono domandato come fosse possibile ottenere ancora un campionato mondiale in quel posto. Certo, abbiamo fatto conoscenza delle scelte emanate dal Consiglio FIFA, ma concederlo di nuovo a una nazione segnata a Nord da cartelli e migranti, nell’estremo Sud dai ribelli zapatisti, non fa che aumentare gli interrogativi.
Il dubbio mi ha portato a interrogarmi, soprattutto su chi avesse finanziato l’ennesima candidatura messicana. A quanto pare la vittoria sarebbe appartenuta agli Stati Uniti tramite Chuck Blazer, il braccio violento dell’esecutivo più corrotto mai apparso alla FIFA. M,a a fare la voce grossa durante i progetti di candidatura, è stato il manager delegato dalla Federcalcio del Messico. Forse lo conoscete: si chiama Emilio Azcarràga Jean. Il Messico vivrà ancora e per sempre tra vita e morte.