Un anno fa compiva l’impensabile, spingendosi oltre i limiti umani.
Nirmal Purja non è un nome che, fuori dalla comunità alpinistica, richiama familiarità. Eppure, la sua impresa annienta qualsiasi altra velleità di grandezza. Arrivando in cima allo Shishapangma il 29 ottobre del 2019, Purja ha scalato le 14 montagne più alte della terra in un arco di 5 anni, cinque mesi e undici giorni. Rispetto al precedente record di poco meno di 8 anni, si tratta di una riduzione di circa il 30%, di per sé sufficiente a destare stupore irrefrenabile.
Considerando però che ha poi salito i 14 Ottomila in sei mesi e sei giorni all’interno di una singola stagione alpinistica, ci si ritrova in un ordine temporale che riscrive la definizione di irragionevolezza. Se si tiene conto che Reinhold Messner, il primo salitore di tutti gli Ottomila, ha impiegato 16 anni e che la media degli altri quarantadue alpinisti ad avercela fatta è di 14 anni, è evidente che Purja merita una scala dimensionale a lui intitolata.
Si sente spesso associare l’espressione “il mio Everest” al raggiungimento di un traguardo che rappresenta l’apice di un percorso personale o lavorativo, in cui lo sforzo profuso si è avvicinato al limite delle proprie possibilità. Nel caso della vetta dell’Everest, o degli altri Ottomila, il riferimento cessa di essere puramente metaforico per acquisire tutta la crudeltà dell’esperienza reale. Contrasti ha approfondito il tema quando a maggio un ingorgo di alpinisti sulla cresta sommitale, immortalato proprio da Purja in uno scatto che è stato definito la foto dell’anno sull’Everest, ha generato reazioni di sdegno ben oltre la cerchia degli appassionati.
Vale qui la pena ribadire che scalare una montagna di quella quota, e a volte anche di altitudine non così vertiginosa, significa affrontare sul campo l’incubo teorizzato dal filosofo greco Zenone di Elea e tramandato da Aristotele, in cui si afferma l’inesistenza del movimento per la ragione che il mosso deve giungere prima alla metà che non al termine. All’impossibilità di completare l’infinito numero di passaggi che questo presuppone, si unisce quella di iniziare il cammino vero e proprio, perché la prima distanza sarà sempre divisibile a metà e quindi mai percorribile. La conclusione paradossale è che lo spostamento lungo uno spazio finito non può né essere portato a termine o tantomeno iniziato, e quindi il movimento è solo illusione.
Dalle parole dei protagonisti, salire un Ottomila è sovente solo illusione. L’illusione di poter toccare la cima e rientrare al campo base, superando i rischi oggettivi e soggettivi che questo comporta senza dover pagare con la vita. L’illusione di poter gestire le allucinazioni che spesso avvolgono la mente quando è sottoposta all’assalto combinato di condizioni atmosferiche avverse e carenza di ossigeno, senza perdere il controllo delle proprie azioni. L’illusione di riuscire a vincere il paradosso dell’immobilità mettendo insieme un passo dopo l’altro, a volte fermandosi anche per dieci respiri prima di riprendere, nonostante questo comporti sofferenze e torture paragonabili a quelle (riferite) di un parto gemellare naturale.
In molti ci provano e non tornano più, qualcuno ci riesce ma non ritenta, un ristretto manipolo ne fa una missione, pochi eletti aggiungono epopea ed epica all’alpinismo.
Nato a 1600 metri di altitudine e con geni nepalesi, Purja è sicuramente un predestinato, anche se non si avvicina all’Himalaya prima dei trent’anni. La sua preparazione militare come Gurkha al servizio dell’Esercito Britannico, tra cui dieci anni nelle Forze Speciali — che accettano solo l’1% dei candidati — è certamente utile a sopportare i rigori dell’esplorazione alle massime quote. Dopo aver scalato tra il 2014 e il 2017 il Dhaulagiri (il 7° più alto), due volte l’Everest, il Lhotse (il 4°) e il Makalu (il 5°), a marzo 2019 Purja si mette in testa che, di li a sette mesi, avrebbe scalato le quattordici vette più alte della terra.
Lasciata da poco la carriera militare, rinuncia anche alla tranquillità della pensione, si autofinanzia con una nuova ipoteca sulla casa e una raccolta fondi su internet (a cui il vostro narratore diligentemente contribuisce) e avvia il Project Possible 14/7, appunto l’audace e all’apparenza folle piano di scalare in media due Ottomila al mese.
Il progetto si suddivide in tre fasi. Nella prima, dal 30 aprile al 24 maggio 2019, Purja scala sei Ottomila: Annapurna (il 10°), Dhaulagiri, Kanchenjunga (il 3°), Everest, Lhotse e Makalu. Questi ultimi tre vengono saliti in poco più di 48 ore, naturalmente un altro record privo di alcun senso logico. Teniamolo a mente la prossima volta in cui borbotteremo per i troppi impegni del fine settimana: c’è qualcuno che nello stesso intervallo di tempo ha scalato la prima, la quarta e la quinta montagna del pianeta!
La seconda fase viene completata dal 6 al 26 luglio 2019, con tutti gli Ottomila del Pakistan: Nanga Parbat (il 9°), Gasherbrum I (l’11°), Gasherbrum II (il 13°), K2 (il 2°) e Broad Peak (il 12°). Nella terza e ultima, il 23 settembre 2019 Purja scala il Cho Oyu (il 6°) e il 27 settembre 2019 il Manaslu (l’8°). Sono tredici Ottomila di fila, manca solo lo Shishapangma (il più “basso” del gruppo), l’unica montagna di questa categoria a trovarsi interamente in Cina. Solo un appello internazionale consente a Purja di ottenere il permesso di salita, altrimenti non concesso dalle autorità cinesi per motivi di sicurezza, e il 29 ottobre 2019 la rincorsa è conclusa.
Non si perde tra le righe l’ironia del fatto che una delle più incredibili realizzazioni sportive di sempre avrebbe potuto essere fermata proprio sul finire da un cavillo di natura burocratica: quella che Messner definisce la libertà di andare dove voglio, di godere della ricompensa dell’ultimo orizzonte e degli interminati spazi che lo sguardo domina dalla vetta, negata dal capriccio e dalla pedanteria di un potere gerarchico del tutto estraneo all’assenza di limitazioni che chi frequenta la montagna ricerca e sperimenta (potere in questo caso espressione di un governo che non si distingue esattamente per la difesa dei diritti inalienabili).
Nella sua cavalcata, Purja stabilisce altri sei record mondiali di velocità sugli Ottomila. Anche lui però non è esente dal ricevere critiche, sull’uso dell’ossigeno supplementare o dell’elicottero per gli spostamenti, sulla logistica facilitata, sulla scelta di salire le vie normali e quindi, sulla carta, più “abbordabili”.
Aspetti che, secondo i detrattori, avrebbero favorito la progressione di Purja entro la scadenza autoimposta.
Non ci sono dubbi sul fatto che il supporto di cui si è servito ha reso più fluido l’incredibilmente macchinoso processo di salita di un Ottomila e accorciato il tempo complessivo. E non ci sono nemmeno dubbi che la spinta morale a mantenere una promessa, per di più davanti a un palcoscenico di enorme risonanza internazionale, ha indotto Purja a considerare la variabile temporale come principale, se non unico, riferimento. Non bisogna però farsi distrarre da questa chiave di lettura.
Rispetto alla maratona o ai 100 metri, l’alpinismo non è uno sport contro il tempo, almeno non in modo diretto: non vince chi arriva prima, e chi arriva prima non vince nulla.
Anzi, quando si è all’inseguimento dei propri limiti, si ha spesso la sensazione che il tempo si fermi, che sia segnato da una cadenza che non distingue più tra minuti e ore o tra giorno e notte, in un’espansione onnicomprensiva di tutti gli infiniti momenti della realtà.
Per Purja un giorno in più o in meno, anche di fronte a un record, non avrebbe fatto differenza, perché la sua volontà era di dimostrare che chiunque è in grado di raggiungere obiettivi ambiziosi, folli, audaci o illusori dando fondo alle risorse che possiede dentro di sé. Oltre a far vedere che gli alpinisti nepalesi, per i quali molti degli Ottomila sono le montagne di casa e il cui apporto nelle spedizioni commerciali occidentali riceve spesso attenzione secondaria, sono tra i più forti — se non i più forti — del mondo.
Come sottolineato da Fabrizio Goria su Alpinismi, è surreale che un passaggio definitorio di questa portata sia transitato quasi in sordina, se non da alcuni pure delegittimato per non essere stato ottenuto, a loro dire, con i giusti mezzi. Purja può elegantemente soprassedere, e guardare alla piccolezza dell’invidia umana dalla posizione irraggiungibile in cui si trova la sua asticella.
Non ancora quarantenne, e con davanti un solido decennio nel quale la fisiologia del corpo terrà a fresca memoria l’abitudine all’alta quota, si candida di diritto a un posto sul Monte Rushmore dell’alpinismo estremo. Se mai a qualcuno verrà in mente di replicare quella scultura, il suo profilo sarà sicuramente il primo a essere finito.