Ritratti
11 Ottobre 2020

Jury Chechi, sfidare i limiti della fisica

Jury Chechi non è soltanto una leggenda degli anelli, ma è anche un'icona nazionale.

Non deve certamente sfuggire all’intelligenza di un atleta di calibro internazionale l’ironia legata ad alcune circostanze di vita che la dedizione totale a una causa impone. La rincorsa all’apice di qualsiasi professione è costellata infatti da contrasti apparentemente insondabili, o il cui superamento può richiedere l’adozione di punti di vista e scelte che esulano dagli schemi convenzionali.

 

Così è per la rivista che ospita questo articolo, che ha fatto dell’animo battagliero del nome che porta più di una semplice linea editoriale. E così è stato anche per Jury Chechi, ginnasta specializzato negli anelli e tra i maggiori rappresentanti dello sport italiano.

 

 

C’è da subito una contrapposizione nella biografia di Chechi, quando il padre — che, insieme alla madre, sarà una figura positiva fondamentale — lo esorta a dedicarsi al ciclismo e al pugilato, perché la ginnastica è considerata “uno sport da donne”. Non c’era in quell’opinione la malizia che spesso ancora infesta troppi commenti: all’epoca la ginnastica era stata effettivamente resa popolare dalle imprese femminili, fra tutte quelle di Nadia Comăneci, la cui perfezione esecutiva rimane a tutt’oggi un riferimento assoluto.

 

Ammaliato dalla stimolazione sensoriale del primo incontro con la palestra, Chechi non solo decide che quella è la passione da inseguire e difendere, ma si fa strada negli anelli, proprio una disciplina che non prevede gare ufficiali tra donne (esercizi e tecniche della ginnastica maschile si differenziano da quelli femminili in misura più significativa che in altri sport).

 

Jury Chechi, semplicemente maestoso nella fusione di potenza e controllo

 

Nelle parole della Federazione Ginnastica d’Italia, degli elementi di slancio, di forza e posizioni statiche, ripartite in numero quasi uguale, formano il contenuto dell’esercizio agli anelli. In una ginnastica dove predomina il lavoro con braccia tese, questi elementi sono eseguiti in sospensione, in appoggio o in verticale.

 

Nella raffigurazione mentale del concetto da parte dell’appassionato da divano, la forza necessaria per opporsi con equilibrio e compostezza alla tortura imposta a un corpo soggetto a quella sequenza di movimenti deve essere di un ordine di grandezza mostruoso. Nessuna routine al massimo livello professionistico è esente dall’ingerenza dei limiti estremi della fisica: nella ricerca del punteggio più alto, i ginnasti sono costretti a non sbagliare ma, data la natura stessa dell’esercizio, si mettono nelle condizioni peggiori per raggiungere quell’obiettivo.

 

 

Anche gli anelli sono naturalmente territorio di confronto avanzato con la gravità. L’anellista ricorre all’esplosività muscolare e a un incredibile senso dell’equilibrio per mantenere il baricentro solidale al perno dei cavi che sostengono gli anelli, pena l’impossibilità di conservare gli elementi statici orizzontali o verticali previsti dall’esercizio.

 

In alcune figure inoltre, la diminuzione della leva causata dalla distanza delle braccia dal corpo comporta l’utilizzo di un enorme quantitativo di forza per consentire lo spostamento alla fase successiva. Chechi è alto 165 cm con un peso forma di 60 kg, numeri che non ricollegano immediatamente al prototipo di atleta moderno. La ferrea convinzione di poter trasformare con duro lavoro una dotazione normolinea in eccellenza sportiva è un altro mirabile esempio di pensiero controintuitivo di chi è destinato alla grandezza.

 

Il trionfo dorato alle Olimpiadi di Atlanta 1996

 

Uno degli elementi statici più facilmente riconoscibili è quello della croce, in cui l’atleta estende le braccia ai lati del corpo fino a far loro assumere una posizione parallela con il terreno, rimanendo contestualmente in sospensione sugli anelli per almeno due secondi, che probabilmente sembrano durare un’eternità. Declinazioni sono poi la croce in verticale, che replica la stessa dinamica ma con la difficoltà aggiuntiva di essere con la testa rivolta verso il basso, e la croce a squadra, in cui oltre alle braccia anche le gambe sono parallele al terreno.

 

 

La bellezza estetica della croce è incomparabile: la perfetta simmetria delle linee ricorda la correlazione tra proporzioni ideali del corpo umano e geometria illustrata da Leonardo nell’Uomo Vitruviano; muscoli, tendini e vene formano una mappa in scala dell’orografia di una catena montuosa, completa di vette, creste, valli e fiumi.

 

 

Non è chiaro se queste figure siano così denominate per l’evidente associazione con la forma assunta dall’anellista o se abbiano un intrinseco richiamo di natura più religiosa, nel tentativo di far emergere un parallelo di sofferenza con il sacrificio di Cristo. Chiara invece è la condizione di spirito di Chechi.

 

Andando ancora una volta controcorrente — e magari con un po’ d’ironia, vista la permanenza in collegio a Varese nel periodo di formazione adolescenziale e la maestria nell’esecuzione delle croci — si definisce ateo, in un paese di profonda ingerenza e strumentalizzazione del Cattolicesimo nel dibattito quotidiano nonché di scarsa accettazione di chi non si allinea a dettami precostituiti.

 

All’età di sedici anni infatti, il compagno di allenamento rimane paralizzato nello stesso esercizio che Chechi avrebbe fatto subito dopo. Cerca aiuto nella fede ma non riesce a trovarlo, e solo le parole dell’amico lo esortano a non abbandonare una carriera da sicuro vincitore.

 

Difficile infine non notare che, seppur con diversa pronuncia, jury in inglese significa giuria. Anche se in omaggio all’astronauta Gagarin (tradizione continuata in famiglia con nomi russi dati ai due figli), Chechi porta già in sé l’inevitabile confronto con i decisori ultimi delle sue gare, cioè i giudici a cui è demandata l’applicazione dei punti. Non è mai facile per un atleta gestire l’incertezza di un sistema che non si affida a grandezze predeterminate, ma che si apre a pieghe e ombre della soggettività della valutazione umana.

 

 

Per Chechi non è diverso, devono passare anni di delusioni e scorrettezze più o meno palesi, prima di veder riconosciuto il merito di essere il più forte. Il bronzo agli anelli delle Olimpiadi di Atene 2004, per quanto un risultato straordinario e inatteso al rientro dopo un periodo molto complicato, è solo l’esempio più eclatante. L’oro al greco Dimosthenis Tampakos desta scalpore e polemiche, e il riesame della gara da parte di una giuria neutrale qualche mese dopo avrebbe dato la vittoria a Chechi, che a sua volta avrebbe assegnato l’oro al bulgaro Jordan Jovtchev, secondo lui il vincitore morale. Il greco? Fuori dal podio al quarto posto.

 

In azione alle Olimpiadi di Atene 2004, nella figura della croce

 

In uno sport relegato purtroppo a ruolo forse anche terziario nell’attenzione dei fruitori di questo tipo di intrattenimento, le Olimpiadi sono gli immancabili quindici minuti di celebrità. Jury Chechi è costretto a saltare Barcellona 1992 e Sydney 2000, in entrambi i casi per infortuni poco prima dell’inaugurazione.

 

Per una nobile legge di compensazione, comunque aiutata dalla preparazione maniacale, arriva l’oro ad Atlanta 1996 e appunto il bronzo ad Atene 2004, a chiusura del professionismo. In mezzo, campione del mondo per cinque volte di fila, quattro volte campione europeo e tredici volte vincitore dei Giochi del Mediterraneo, per un totale di 35 medaglie di cui 26 d’oro, oltre a sei titoli italiani consecutivi. E poi l’orgoglio da portabandiera ad Atene e da apritore di cerimonia alle Olimpiadi invernali di Torino 2006.

 

 

Se nel Codice di Punteggi della Federazione Internazionale c’è il tuo nome accanto a delle particolari figure, come per le mosse dei più importanti scacchisti della storia, allora la leggenda è assicurata.

 

Jury Chechi continua ad alimentarla con una condotta che rende onore all’Ordine al merito ricevuto nel 2004, come nella recente iniziativa di mettere all’asta quasi tutti i trofei per salvare dalla chiusura la palestra di Prato da cui è partita l’ascesa al vertice della ginnastica mondiale. Nel giorno dei suoi 50 anni, Jury Chechi può definirsi un uomo completo perché, come scrive Rudyard Kipling, ha colmato l’inesorabile minuto con un momento fatto di sessanta secondi. Gli stessi nei quali, fluttuando agli anelli, ha regalato emozioni indelebili.

 


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