Ritratti
28 Aprile 2023

Sofia Goggia, spirito della montagna

Un'atleta assoluta, capace nella discesa di elevarsi.

Nel febbraio del ’36 un insolito Julius Evola si trova a trattare, nella Rivista nazionale del CAI (Club Alpino Italiano), di “spirito della montagna”: l’intento è di rammentare la sacralità delle cime, luogo in cui «la personalità spirituale può cogliere o rafforzare il senso di sé». Non sappiamo se Sofia Goggia annoveri il Barone fra le tante sue letture, ma certo le è proprio quello spirito delle vette che «agisce come simbolo e come simbolo avvia ad una realizzazione interiore corrispondente», elevando «l’azione al valore di un rito».

Quello che Sofia è, sportivamente, lo dimostra da sempre: prima olimpionica in discesa libera nella storia azzurra, prima sciatrice italiana della storia a essere salita sul podio in quattro diverse specialità (gigante, superG, discesa, combinata) nella Coppa del Mondo. Ha da tempo superato persino Deborah Compagnoni a cui, sminuendosi, sosteneva la accomunassero soltanto guai fisici e conseguenti operazioni di chirurgia.

Alla definitiva maturazione è approdata lavorando sulla costanza, lei che sa di dover essere «come la goccia che scava la roccia», perché troppo spesso l’agonismo l’ha portata sì a scavare la roccia, «ma come un torrente in piena»; la famelica inesperienza è ora divenuta razionalità adulta per una condotta agonistica stabile, vincente. D’altronde, «la direzione e la volontà sono tutto» scrive alla vigilia dell’ultima discesa dell’anno, che già la vede campionessa mondiale per la quarta volta, la terza consecutiva:

lei, che ha fatto del “mola mìa” (non mollare) il suo motto, si sveglia con la quarta coppa nel mondo a farle compagnia e si ripete, nel dialetto che tanto ama, “sa te olet de piö?” (cosa vuoi di più?).

Definisce la vittoria “gratitudine, autenticità, consapevolezza” e sa bene di essere altro da sé, di dover ringraziare ed esser grata. Perché Sofia Goggia è nel mondo, ma non del mondo: nel mondo per fisica e fisiologica necessità, oltre il mondo perché questo, così bisognoso «di un’etica di vita corretta, prima di tutto verso se stessi e poi verso gli altri», non le appartiene. Per lei, ben radicata alle origini, bergamasca “della città alta” (ribadito con fiero campanilismo), cresciuta sportivamente a Foppolo – “tre piste in croce” – l’habitat ideale rimane la baita di famiglia a Cogne, a 2241 metri d’altezza, senza acqua né corrente né linea telefonica.

Sofia Goggia Mattarella
Sergio Mattarella con l’Alfiere della squadra olimpica Sofia Goggia e Federica Pellegrini durante la Cerimonia di consegna della Bandiera Italiana agli atleti, in partenza per i Giochi Olimpici Invernali 2022. (Foto Quirinale.it)

«È un paradiso», dice lei, che si descrive come «una all’antica»; è autenticamente libera, lontana dai condizionamenti esterni. In un mondo in cui gli sportivi diventano divi da copertina (talvolta neanche così vincenti) o si improvvisano intellettuali engagé, lei racconta candidamente di avere per amica una suora che di domenica le spiega il vangelo e che, quando può, passa in chiesa a trovare il sacerdote. O che vanno bene i trionfi sportivi, ma in realtà «se non sai fare la polenta non sei nessuno». A meravigliare, oltre i trionfi in pista, sono i valori umani e la vocazione metasportiva, che emergono mirabili in tre vittorie su tutte.

Nel 2019, l’argento al superG di Garmisch e la successiva vittoria a Crans Montana a soli tre mesi di distanza dalla frattura del malleolo; l’argento olimpico a Pechino 2022, ventitré giorni dopo la lesione al crociato; quindi la vittoria dello scorso dicembre nella discesa libera a St. Moritz, con la mano sinistra fuori uso, crivellata da placche e viti ad improvvisare un rimedio. Alla nefasta vigilia delle Olimpiadi commentò con uno stupefacente

«se questo è il piano di Dio per me, io altro non posso fare che spalancare le braccia, accoglierlo e accettarlo».

Parole inusuali per uno sportivo, che ben collimano con le dichiarazioni quasi ascetiche dopo la vittoria di St. Moritz: «ho avuto molta fede, sono stata guidata da una luce particolare, qualcosa che ho vissuto, che ho sentito interiormente». Perché l’essenza di Sofia Goggia sta al di là di Sofia Goggia, e, parafrasando CB, diremmo che non pratica lo sci ma ne è praticata, animata dallo spirito della montagna: è altro da sé, spirito in moto, incedere dell’atto sovrannaturale.

Sofia Goggia in gara a Garmisch (Foto di Stefan Brending, da Wikipedia)

Si compie in lei il motto olimpico, citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte), che non a caso Pierre De Coubertin mutuò dal domenicano Henri Didon, prima di definire l’olimpismo una religio athletae. Difatti Sofia Goggia riesce religiosamente a legare la discesa sportiva e l’ascesa spirituale: come se scendendo a valle riuscisse ad elevarsi fino a raggiungere, ancora con Evola, «un punto trascendente di riferimento, attraverso il quale le vicende di ardimento, di rischio e di conquista, le discipline del corpo, […] assurgono al valore di vie per la realizzazione di ciò che nell’uomo sta di là dall’uomo».

Come da motto preferito – nec recisa recidit – Sofia Goggia non retrocede nemmeno spezzata, è diventata vincente al punto da immedesimarsi nell’idea di vittoria, che per lei significa “autenticità, identificazione di sé”, ed è ormai pronta a consacrarsi come mito sportivo: uno status che, dice, spetta a chi

«ha l’anima cosparsa di polvere di stelle».

Come la sua, probabilmente, un’anima mossa dallo spirito della montagna, fortificata dalla ricerca del sacro e ispirata dalle tante letture, tra cui spuntano i filosofi greci, le poesie di John Keats e di Emily Dickinson, i romanzi di Jane Austen. Per le imprese compiute oltre le avversità, le vette raggiunte superando ciò che il fisico può spiegare, Sofia Goggia è già mito: ed è un’atleta assoluta, perché nella discesa è capace di elevarsi.

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