Non ci fu Paese più pronto e prolifico dell’Italia nel rispondere all’apertura delle politiche migratorie dell’Argentina –successive alla guerra della triplice alleanza (o guerra paraguaiana) e alla cosiddetta conquista del deserto. La necessità di popolare grandi distese di territorio, sanguinosamente sottratte al Paraguay e agli indigeni della Patagonia, costituiva infatti un approdo naturale per il forte desiderio di rinascita degli italiani di fine diciannovesimo secolo, vessati in patria da condizioni di miseria diffusa ed elevata pressione demografica. Si stima che tra il 1876 e il 1976 arrivarono a più riprese in Argentina quasi 3 milioni di connazionali. Se si tiene conto anche degli argentini di origine italiana, più del 50% della popolazione riconosce oggi una qualche forma di discendenza da avi della penisola, facendone con circa 25 milioni di persone il primo gruppo etnico della Nazione.
Magari Julio Velasco, considerato da molti il più grande allenatore nella storia della pallavolo, ha iniziato la sua epopea internazionale proprio dall’Italia (diventandone poi cittadino a tutti gli effetti dal 1992) come testimonianza del contributo italiano allo sviluppo socio-economico dell’Argentina; o forse, da uomo di cultura con una laurea in filosofia, ha voluto rendere concrete le parole dello scrittore messicano e premio Nobel Octavio Paz, che ha definito gli argentini «degli italiani che parlano spagnolo e si credono inglesi». Più realisticamente l’intuizione geniale di Giuseppe Cormio, allora neo direttore sportivo della squadra di Jesi e futuro vincitore di qualsiasi trofeo per club, lo ha indotto alla consapevolezza che, solo trasferendosi in Italia, avrebbe trovato l’ambiente competitivo adatto a far esplodere la sua visione di gioco.
I successi di Velasco iniziano a Buenos Aires, dove vince quattro campionati maggiori consecutivi con il Ferro Carril Oeste. Terminata l’iniziazione a Jesi in serie A2, è però a Modena che avviene il decollo, in una delle roccaforti tradizionali della pallavolo italiana in cui riporta lo scudetto a distanza di dieci anni. Ne seguono altri tre e la chiamata della nazionale che lo priva dell’occasione di vincere la Coppa dei Campioni — dopo tre finali perse contro la corazzata CSKA Mosca —, l’unico trofeo per club mancante in bacheca. Con la nazionale si compie l’apoteosi, il raggiungimento della massima espressione del modo di Velasco di intendere la pallavolo, come sport e come contesto applicativo dell’etica di vita.
In otto anni, la sequenza di risultati conseguiti è sbalorditiva: 3 ori e 1 argento agli Europei, 2 ori ai Mondiali, 5 ori e un argento nella World League, altri 3 ori e un argento in diverse competizioni.
Quella nazionale verrà poi premiata dalla Federazione Internazionale come la squadra del secolo, un riconoscimento magari un po’ pomposo ma che, di fronte al dominio esercitato in campo, non sembra questa volta un’esagerazione. Non può mancare però la sconfitta, quella che spesso priva di “completezza” anche squadre e atleti della stratosfera sportiva: alle Olimpiadi di Atlanta 1996, l’Italia perde da favorita in finale con l’Olanda per il margine più ridotto, malgrado la stessa partita – nel girone – fosse stata una sbrigativa dimostrazione di forza. La conquista dell’argento ha così il sapore malinconico di un oro sperato, pregustato ma sfumato all’ultimo. Una medaglia che anche nelle edizioni successive avrebbe preferito il collo di altre nazionali, visti gli argenti ad Atene 2004 e Rio 2016 (entrambi da sconfitte contro il Brasile).
Velasco ha però il merito di catapultare l’Italia, fino a quel momento due bronzi e un argento nei tornei più rilevanti, al vertice della gerarchia della pallavolo, nella cerchia occupata da potenze come la Russia, il Brasile e gli Stati Uniti (la cui base di praticanti è però enormemente maggiore). Dapprima con le vittorie a Modena, che da un lato risvegliano l’interesse ciclico in presenza di risultati eclatanti o personaggi carismatici per gli sport considerati minori — quelli che devono sottrarre al calcio l’attenzione del grande pubblico –, e dall’altro favoriscono l’afflusso di sponsor di peso, i quali rendono il campionato italiano degli anni ’90 il più competitivo del mondo. Poi con la cavalcata della nazionale, che occupa un posto di primo piano nell’immaginario collettivo delle imprese azzurre.
Questa unisce un popolo intero nel tifo e consolida l’orgoglio di appartenenza al Paese al pari di quanto ottenuto da Alberto Tomba, i fratelli Abbagnale o Jury Chechi, rovesciando temporaneamente l’ordine precostituito della conversazione sportiva.
Velasco gode del lusso di un insieme di giocatori dal talento enorme, campioni come Gardini, Giani, Bernardi che sono entrati nella Hall Of Fame (di cui fa parte lo stesso Velasco) o come Lucchetta, Zorzi, Gravina, la cui notorietà supera i confini della pallavolo. Per il raggiungimento tuttavia di un simile obiettivo, che richiede coesione d’intenti e limitazione delle individualità a favore della causa comune, il solo talento non basta se privo di una guida che lo indirizza, lo alimenta, lo plasma; che lo conduce per gli alti e bassi di un torneo intercontinentale di qualche settimana, di un’intera stagione o di anni di eccellenza prolungata e finalizzata ad esprimersi, senza compromessi, nelle occasioni che più contano.
Accertato l’indiscutibile spessore tecnico, ormai imprescindibile per navigare il professionismo sportivo moderno, Velasco rappresenta una discontinuità evolutiva in termini di mentalità. La sua dottrina raccoglie e converte elementi portanti di altri orientamenti organizzativi e culturali, a volte anche in anticipo sui tempi, in una fusione interdisciplinare quasi onnicomprensiva. Un approccio olistico, che travalica di gran lunga i confini della pallavolo. C’è, nella selezione scientifica dei giocatori per la massimizzazione del rendimento di ciascun ruolo, un po’ di Taylorismo. C’è, nell’insegnare ai giocatori a muoversi per conto loro e non secondo le intenzioni dell’allenatore, un po’ di Confucianesimo. C’è, nella volontà di raggiungere la perfezione quando l’allenatore non ha più nulla da aggiungere, la semplicità secondo il Quaccherismo.
C’è, nell’imparare ad affrontare trionfi e sconfitte e trattarli allo stesso modo, un po’ del messaggio di Kipling.
C’è, nella ricerca dall’autenticità mediante lo sviluppo e il rispetto della propria personalità, un po’ della maieutica di Socrate. E c’è ancora, nell’acquisizione della leadership attraverso il consenso e la decisione autonoma del gruppo, un po’ dell’innovativo e recente metodo di gestione decentralizzata chiamato Holacracy, nel quale autorità e potere esecutivo sono distribuiti in una “olarchia” di gruppi auto-organizzati anziché essere conferiti da una gerarchia manageriale. L’applicazione pratica passa dalla responsabilizzazione del singolo attraverso due pilastri dell’insegnamento di Velasco: lo scardinamento degli alibi, che giustificando l’errore con colpe altrui sono un ostacolo alla crescita personale, e la declinazione del concetto di vittoria in tre passaggi incrementali, cioè superare i propri limiti, poi le difficoltà e infine gli avversari.
Julio Velasco assurge a vate di un intero movimento, una figura quasi mitologica che trascende lo sport di riferimento e diventa un’icona mediatica. Esempi altrettanto illustri, ma con altre caratteristiche, sono quelli di Phil Jackson, vincitore di undici titoli NBA alla guida di due franchigie cariche di campioni e di ego come Chicago Bulls e Los Angeles Lakers, e del primo José Mourinho, il cui acume tattico ed eclettismo espressivo ne hanno fatto una sorta di mentalista del calcio europeo.
Dopo un lungo peregrinare che lo porta anche sulla panchina della nazionale femminile italiana, e poi alla soddisfazione dell’oro ai Giochi Panamericani del 2015 con la sua Argentina, la vittoria della Supercoppa italiana nel ritorno alla città adottiva di Modena è l’ultimo traguardo prima del ritiro da allenatore, affidato a una lettera che ripercorre con emozione la lunga carriera.
«Ho allenato per 44 anni, un lavoro che è stato un privilegio. Questo momento per me non è semplice, ma come molti giocatori hanno smesso di giocare quando ancora erano forti, anch’io ho voluto chiudere la mia carriera quando ancora avrei potuto allenare, senza aspettare il declino»
Un estratto dalla lettera d’addio di Julio Velasco
Dopo 44 anni di militanza però, la fiamma interiore dalla passione per la pallavolo non si spegne così facilmente. Accetta infatti di ripartire come direttore tecnico del settore giovanile maschile della federazione con l’obiettivo di instillare nei ragazzi “il virus per lo sport”, come lui stesso lo ha chiamato. E forse nessuno, più di Julio Velasco, è la persona giusta per diffonderlo e trasmetterlo.