Giacché in geopolitica l’abito fa il monaco, le Olimpiadi sono da sempre vetrina privilegiata per le istanze diplomatiche e i bisogni propagandistici di Paesi e leader ospitanti. Un breve detour storico è sufficiente a rammentare una prassi ormai consolidata: gli ultimi Giochi di Pechino, in piena stagione pandemica, oltre a rinsaldare i rapporti tra Putin e Xi, mostrarono al mondo il volto spregiudicato del Dragone capitalcomunista, passato definitivamente da “grande malato d’Asia” a “fabbrica del mondo”.
Allo stesso modo, dieci anni fa, i giochi di Sochi rappresentarono i prodromi dell’invasione della Crimea da parte di Putin. Sempiterni rapporti di forza e giochi di potere, economici come quelli che legarono le Olimpiadi ad Atlanta nel ’96, o politico-ideologici, che ad esempio ispirarono i boicottaggi occidentali a Mosca ’80 e quelli sovietici a Los Angeles ’84, il doping di stato di là del muro, il terrorismo del Settembre Nero e via discorrendo fino all’alba dei tempi.
Digressioni storiche a parte, tra meno di un mese sarà la volta della Francia: ospiterà i giochi una Nazione che vive della propria grandeur, storicamente predisposta a mostrarsi più grande della sua effettiva statura. Se già Charles De Gaulle avvertiva riguardo la necessità di “fingere” di essere ancora una potenza globale, è evidente come la grandeur, almeno paventata, abbia per la République un valore identitario, tattico e strategico: non a caso, consapevole delle crisi intestine, fino al 9 giugno Emmanuel Macron andava ricercando un ritorno alla storia più necessario che possibile, secondo un disegno fatto di politiche demografiche, riabilitazione dell’assimilazionismo, ripristino della coesione interna nel tentativo di ammansire le turbolente minoranze islamiche.
Tentativi velleitari per l’enfant prodige di Renaissance, con la Francia sconquassata da opposti estremismi, interpretati dal Fronte Popolare e dal Rassemblement National: poli antitetici che rientrano in realtà entro un comune schema dialettico e rappresentano, dal punto di vista antropologico, due sfumature di un unico fenomeno, vale a dire il decadimento socio politico e culturale, che diviene malcontento per la “crisi morale” delle élites.
Un fenomeno per molti aspetti simile a quello che portò alla singolare sconfitta con la Germania nel 1940. Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen sono catalizzatori di un malcontento “dal basso”, affrontato in una chiave di lettura populista e critico verso le élites, alla ricerca di un disegno di una Francia minimalista, più attenta alle proprie esigenze interne che all’agognata ricerca di un posto tra le grandi potenze.
Al di fuori di sé, nodo critico e non trascurabile per l’Esagono è la perdita d’influenza nella fu Francafrique, dove nonostante il franco-CFA venga stampato in 14 Paesi (probabilmente ancora per poco), la regione è ormai segnata dalla penetrazione economica e militare di Turchia, Russia e soprattutto Cina. La Francia non ha potuto che assistere impotente allo sgretolamento della propria influenza in tutto l’ex impero, tra colpi di stato, nuove elezioni – come in Senegal – e accessi negati alle materie prime fondamentali come l’uranio (attualissima la questione Niger).
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