Comprendere Osvaldo non è semplice. Non lo è neanche adesso che con il calcio non ha più nulla a che fare. Personaggio complesso per via del suo stesso essere – dentro e fuori dal rettangolo di gioco – lunatico, primattore carismatico, innamorato della sua immagine e della rivoluzione, instabile, anarchico, Pablo Daniel ha lasciato il segno, nel bene o nel male, in tutte le piazze in cui ha militato. Incurante del domani, nichilista, la figura che restituisce al pubblico è quella che lui stesso ha di sé. Uomo che crede negli amori veloci, che bruciano presto (padre di quattro figli con tre differenti compagne).
Rockstar maledetta, dannata nell’Eden del pallone, l’ossimoro è la figura retorica che gli si addice di più. Osvaldo divide, raramente unisce. Partiamo però da un assunto di fondo: è stato un talento. Inespresso, o meglio, espresso a metà, ma pur sempre un talento. Nelle sue vene scorre il sangue caldo del sud America. A dargli i natali è Lanús, città a sud di Buenos Aires abitata da circa duecentomila persone. Città, Lanús, che ha un certo feeling con il talento calcistico dato che lì è nato anche Maradona.
L’esperienza calcistica vera e propria è però lontana dall’Argentina. A captarne il talento è l’Atalanta che lo porta in Italia nel gennaio del 2006 prelevandolo dal Club Atlético Huracán. Il bollore del suo sangue si scontra presto con il freddo di Bergamo. Ad accoglierlo c’è la neve, l’albergo isolato di Zingonia e soprattutto nessuno che parla la sua lingua.
“Fu dura, andai in camera, piansi”,
dichiara a distanza di tempo Osvaldo che all’epoca di anni ne aveva appena compiuti venti. Ci vuole però poco affinché l’argentino si ambienti e faccia dell’Italia la sua seconda casa. Il rapporto con la penisola sarà sempre tormentato. Un’attrazione fatale che cercherà di ignorare fuggendo all’estero, ma il cui richiamo finirà sempre per persuaderlo fino a farlo ritornare. L’Odissea di Osvaldo inizia dunque da Bergamo. Come Ulisse, che però sfugge al canto delle sirene in mare, Osvaldo è destinato a peregrinare, con epilogo simile anche se più amaro: il ritorno in patria.
Dopo la breve parentesi con l’Atalanta, Pablo si trasferirà al Lecce (sempre in B) dove troverà Zdeněk Zeman. Con il boemo troverà una certa continuità fin quando lo stesso tecnico non sarà esonerato. L’argentino dimostra da subito un buon fiuto del gol. L’esperienza salentina risulterà fondamentale per il proseguimento della carriera di Osvaldo che ha già attirato le attenzioni dei club di A. Dopo una complicata operazione di mercato, la Fiorentina riesce a portarlo all’ombra della Fiesole alla corte di Cesare Prandelli.
Sceglie la Nove, quella che fu di un altro argentino che ha fatto la storia della società toscana: Batistuta. L’esordio assoluto in Serie A dell’attaccante è da predestinato. Nel derby del Picchi, 2007, tra Livorno e Fiorentina, Prandelli lancia dal primo Osvaldo nel tridente insieme a Pazzini e Santana, complice il turn over europeo della viola, schierandolo come esterno di sinistra. Due perle. Le prime due marcature nel massimo campionato italiano sono due gioielli che ancora risplendono negli occhi dei tifosi viola (che non vincevano a Livorno da trentasei anni).
Il primo gol è un tiro al volo di piatto destro poco fuori il vertice sinistro dell’area piccola di rigore. Il nove viola impatta la sfera che gira sul palo lontano e s’insacca. Il secondo è da vero predatore. Osvaldo riceve un cross morbido dalla destra di Santana, elude la discutibile marcatura dei centrali amaranto e col destro in semi pallonetto fa due a zero.
Nella stessa stagione Osvaldo si rende protagonista di altri due gol storici per la Fiorentina, entrambi all’Olimpico di Torino. Il primo lo realizza contro la Juventus, rivale di sempre della viola. Rete indimenticabile che arriva all’ultimo istante di una gara tiratissima. Dopo il gol di testa (in torsione bassa su cross dalla destra) corre sotto il settore ospiti togliendosi la maglia. Era già ammonito, viene espulso. Poco importa, perché la notizia la fa la sua marcatura all’ultimo istante che permette ai suoi di battere i bianconeri in trasferta dopo vent’anni.
L’altro gol è probabilmente il più pesante della sua carriera e sicuramente uno dei più belli in assoluto. Questa volta si gioca contro il Toro. La posta in palio è altissima. La Fiorentina necessita dei tre punti per assicurarsi il quarto posto utile per disputare i preliminari di Champions. A quindici dalla fine, Martin Jørgensen mette in area un cross imperfetto che Osvaldo prova a controllare di testa. La sfera resta indietro e a mezz’aria. Proprio in quell’istante l’argentino decide di andare in cielo senza aspettare che il pallone tocchi terra e lo colpisce in rovesciata. Il risultato è:
” un gol meraviglioso che Osvaldo si costruisce da solo”,
così lo definisce Riccardo Gentile che commentava la gara dell’Olimpico per Sky Sport. Alla fine della stagione il bottino dell’ormai italo-argentino (viene convocato dall’under 21 azzurro) è di 5 gol in 667 minuti. Uno ogni 133. Non male per un esordiente che ha dovuto sgomitare tutto l’anno per una maglia da titolare vista la concorrenza di Vieri, Pazzini e Mutu.
La stagione successiva (2008-2009) avrebbe dovuto consacrarlo. Quando si parla di Osvaldo il condizionale è quasi un obbligo formale. Tra infortuni e panchina il centravanti non riesce a giocarsi le possibilità per affermarsi. Sarà costretto perciò a fare un passo indietro, a lasciare Firenze e a trasferirsi al Bologna che lo prende prima in prestito, poi a titolo definitivo (pagando il suo cartellino circa sette milioni di euro). Con i felsinei le cose non cambiano. I problemi fisici continuano a tormentarlo e, complici le difficoltà che il Bologna affronta durante l’anno, non trova la fiducia di nessuno dei tecnici che si susseguono sulla panchina rossoblu.
Le offerte non mancano, anche dall’estero. La scelta è presto fatta. L’Espanyol di Mauricio Pochettino è il club che più lo cerca. Osvaldo non ha dubbi. E’ la scelta giusta. Il tecnico argentino rilancerà l’attaccante e, in un certo senso, lo aiuterà a crescere. Le prestazioni sono pazzesche. Con José Callejon compone un attacco duttile, prolifico e assortito. La crescita di Pablo Daniel è notevole. L’evoluzione è tattica. Si afferma da prima punta, impara i movimenti da centravanti vero, si muove sulla linea del fuorigioco e segna in ogni modo. Nonostante la croce degli infortuni che dovrà trascinare per tutto il suo percorso calcistico, l’esperienza spagnola è più che positiva.
Il primo anno in 20 presenze mette a segno 7 gol, il secondo 13 gol in 24 presenze. Il suo valore triplica.
L’Espanyol lo cede alla Roma, nella sessione estiva del 2011, per quindici milioni. E’ l’occasione della vita in una piazza affamata, in eterna ricerca di un’identità, in continua tendenza verso i piani alti dell’Olimpo del calcio che però le chiude sempre le porte, relegandola, insieme ai suoi tifosi, ad un eterno purgatorio. Piazza ribelle, ferita e problematica che segnerà Osvaldo nel profondo e che porterà alla luce la parte oscura di sé. Dopo una gara di campionato persa dai giallorossi (contro l’Udinese), l’attaccante colpisce con un pugno il connazionale Erik Lamela, reo di non avergli passato la palla in più di una circostanza.
Ovviamente arrivano le smentite da parte degli interessati e della Roma stessa che però multa il giocatore oltre a non convocarlo per la gara successiva contro la Fiorentina. Non è finita qui. La stagione che segue è quella in cui Osvaldo realizza più gol in assoluto nella sua carriera: 17 gol in 30 presenze. È anche la stagione della rottura definitiva con la piazza che l’ha sempre amato a metà.
L’argentino si mette d’impegno per complicare le cose sbagliando un penalty sottratto al rigorista Totti in occasione della trasferta di Genova contro la Sampdoria. La goccia che fa traboccare il vaso è la lite con il tecnico Andreazzoli, subentrato a Zeman, dopo la sconfitta nel derby di Coppa Italia. A Roma vogliono la testa di Osvaldo, uno dei principali artefici, a detta dei tifosi, della deludente stagione dei giallorossi. Nonostante i suoi gol, la piazza lo scarica. La società cerca perciò di venderlo a un prezzo vantaggioso e riesce a farlo cedendo Osvaldo al Southampton per una cifra molto vicina a quella dell’acquisto.
L’attaccante è stato fortemente cercato dal tecnico dei Saints Pochettino, suo padre spirituale e calcistico. Con lui il suo rendimento mentale e fisico è sempre stato positivo. Osvaldo è però cambiato e il processo è irreversibile nonostante la cura Pochettino. Con il club inglese si rende protagonista di altri episodi negativi, prima beccandosi tre giornate di squalifica per una rissa contro i calciatori del Newcastle, poi per aver aggredito fisicamente il suo compagno José Fonte. La società lo multa e sarà costretta a cederlo in prestito. Inizia così il suo lungo calvario.
Nella sessione invernale del 2014 viene ceduto in prestito alla Juventus. Con i bianconeri vincerà lo scudetto, il primo e unico trofeo che vanta nel suo Palmarès, giocando poco e segnando solo una volta in campionato proprio contro la Roma all’Olimpico all’ultimo istante. Antonio Conte e il gruppo Juve riescono a gestire e a far integrare Osvaldo che sembra tornato sereno. I campioni d’Italia, però, non riscatteranno l’attaccante che resta in Italia accasandosi all’Inter di Mazzarri. Con l’Inter parte fortissimo e trova anche molto spazio. Contro il Sassuolo si rende protagonista di una gara eccellente con due gol e un assist.
La strada sembra quella giusta sotto il profilo personale, ma i risultati della squadra sono mediocri e Mazzarri viene esonerato. Al suo posto Mancini. Il rapporto tra il neo allenatore e l’argentino non decollerà mai. Osvaldo è nervoso, non gioca, gli viene preferito Icardi sul quale la società crede maggiormente. La rottura con l’Inter è nell’aria e si materializza allo Stadium di Torino. Osvaldo entra in campo carico e con la voglia di far bene contro la sua ex squadra che lo accoglie benissimo. Passa poco tempo e l’argentino macchia la sua gara scagliandosi contro il connazionale Icardi per un passaggio mancato. In seguito la società lo metterà fuori rosa per poi cederlo al Boca Juniors.
Dani torna a casa, in Argentina nel suo Boca. C’è entusiasmo intorno a lui e intorno alla squadra che riabbraccia anche Carlos Tévez. L’attacco dei sogni è realtà. Con la casacca degli Xeneizes Osvaldo segna al debutto in Copa Libertadores contro il Montevideo Wanderers con un “tremendo cabezazo” sotto la Curva della Bombonera. Gol pesante e partenza super. 7 reti in 16 presenze. Data la pausa del campionato argentino, l’attaccante si trasferirà per quattro mesi al Porto. Con i dragoni portoghesi non giocherà praticamente mai. Al ritorno in Argentina le cose si complicano.
Con il tecnico Barros Schelotto la scintilla scatta, ma in maniera negativa. Ancora una lite, l’ultima della sua carriera sportiva. Osvaldo decide di smettere con il calcio e di lasciarsi alle spalle un mondo che non l’ha mai accettato e che spesso l’ha fatto sentire di troppo per darsi alla musica, sua seconda vera passione. Ripercorrendo la sua carriera viene facile affermare che, probabilmente, il suo errore sia stato tornare in Italia, paese che lo ha lanciato e ripudiato. Talento sprecato, inespresso, sciupato e sfiorito. Ma non ci sono compromessi nel mondo del Rock & Roll.