Meglio l'alcol e i balletti dei moralisti da social network.
“È giunta mezzanotte, si spengono i rumori, si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffè, le strade son deserte, deserte e silenziose, un’ultima carrozza cigolando se ne va”. Queste parole, questa poesia m’è saltata in mente e mi è risuonata dentro di fronte alle immagini – virali, così si dice, per il volgo, malinconiche per chi scrive – di Pavel Nedved. Pavel Nedved ciondolante, barcollante per la strada, nella solitudine della notte e il suo volto, nascosto, con la maschera dell’ubriaco. Ciondolante e barcollante e ignaro che il suo incedere sarebbe stato immolato alla derisione onanista della rete, rete sempre più a strascico, sempre più ricolma di detriti e priva di forme di vita.
La derisione dell’umano solo, spogliatosi di se stesso. Nessun, nemmeno un atomo di umana comprensione. Sì, umana compassione, da far pensare “ora vado lì, e gli metto una mano sulla spalla”. Pavel Nedved, giocatore prima e dirigente poi sempre messosi in mostra per una naturale e genuina antipatia: antipatia negli atteggiamenti in campo, antipatia per gli atteggiamenti in tribuna. Antipatia come ragione d’essere ed esistere. Bastava vederlo in volto, figuriamoci sentirlo parlare.
Anche perché, oltre ad essere antipatico, Nedved è uomo e simbolo della Juventus, mica un’avvenente premier finlandese simbolo dei diritti civili. Per lui le giustificazioni non valgono, gli appelli alla privacy nemmeno, e nessuno lancia campagne di sostegno. Colpa e condanna, quella dell’essere uomo, juventino, antipatico, deflagrate in gogna cieca ed epilettica: alimentata dal gorgoglio dei social, promossa dalle barricate (ormai virtuali) del tifo, forse pilotata da chi aveva tutto l’interesse che questi video fossero dati in pasto alle arene digitali – pare che il famigerato balletto fosse vecchio di tre anni.
Ecco la bella sorpresa per il suo cinquantesimo compleanno, caduto ieri. I video ma soprattutto i voyeur ed accusatori digitali, il processo nella pubblica piazza delle piattaforme: un non luogo che dà a tutti una toga da giudici o quantomeno da pubblici ministeri – della “morale”, innanzitutto. Ma se riusciamo a sopportare e ad andare oltre il ronzio dei social, abbiamo solo Pavel Nedved.
Pavel Nedved che, improvvisamente, si mostra vulnerabile e umano. Umano e solo. Pavel Nedved che fino a ieri non sopportavo, e che da oggi mi sta un po’ più simpatico. Se infatti i balli con le donzelle semi ignude posson provocare dall’indignazione ignorante all’ignorante invidia, quell’uomo in frack che “s’allontana lentamente, con incedere elegante, ha l’aspetto trasognato, malinconico ed assente, non si sa da dove vien, né dove va” dovrebbe, dovrebbe, suscitare un moto di (umana, troppo umana) tenerezza. Ma è come aspettarsi il White Album dai Maneskin. E nella rete, per angosciante paradosso, forse se l’aspettano davvero.