Con Tomàš Rosicky lascia uno degli ultimi gentiluomini del calcio europeo, alla ricerca di nuovi giocatori simbolo.
Dopo il ritiro di Tomàs Rosicky alcuni giornali e riviste hanno riportato la notizia che tutti i protagonisti di uno spot diventato a suo modo di culto si sono ritirati, rimarcando così nostalgicamente lo scarto generazionale e la sensazione di vecchiaia che ne deriverebbe. Lo spot è il famoso “secret tournament” che la Nike ha girato per i Mondiali in Corea del Sud nel 2002: i migliori giocatori del mondo si sfidano 3 contro 3 su una nave cargo, agli ordini del demiurgo Cantona, 6 anni dopo il primo spot della “serie”. I 24 erano: Rosický, Thierry Henry, Francesco Totti, Rio Ferdinand, Patrick Vieira, Ruud Van Nistelrooy, Paul Scholes, FredrikLjungberg, Luis Enrique, Edgar Davids, Lilian Thuram, Luis Figo, Hernan Crespo, Ronaldo, Ronaldinho, Hidetoshi Nakata, Denilson, Fabio Cannavaro, Claudio López, Javier Saviola, Gaizka Mendieta, Sylvain Wiltord e Seol Ki-Hyeon.
Dentro la gabbia, senza regole. Unico limite: la fantasia.
Fomentati da quelle sfide a colpi proibiti su una musica che invitava a “meno parole, più azione”, schiere di ragazzini si riversavano per le strade cercando di emulare quei numeri, dando inizio a quello che da “joga bonito” divenne poi il freestyle che oggi conosciamo, tra ginocchia sbucciate e vetri rotti. Dalla sfida contro i demoni, alla battaglia contro i samurai nel “Colosseo quadrato”; dal “Take it to the next level” al “Mettila dove vuoi” le réclame hanno inventato un mondo intero di iconografie in cui il campione è un supereroe in cui la combinazione di tecnica e personalità (grazie al il prodotto commerciale) diventava un superpotere: perfino Gattuso e Torsten Frings si sublimavano in maestri di precisione. Spot così non ne fanno più per molti motivi: i canali di diffusione sono cambiati – come le reti sociali – e il testimonial è sufficiente che ammicchi o tenga lo sguardo da duro. Nemmeno Federer fa più la pubblicità dei rasoi: c’è Griezmann, che tira le guance per cercare un pelo sul suo volto glabro.
Lotta all’ultima pallonata nel Palazzo della Civiltà Italiana: se uscisse oggi questa pubblicità rischierebbe forse di cadere nella censura “antifascista”
Per tornare alla vulgata mediatica, dovremmo sentirci vecchi perché i giocatori di quelle pubblicità, che erano i più iconici dell’epoca, ovviamente tra quelli legati a quello sponsor tecnico, si sono ritirati tutti. Il problema invece non è che ci sentiamo vecchi, ma che nessuno abbia preso il loro posto. Non tanto in campo, ma in quanto icone, non d’immagine ma di personalità e rappresentatività. A modo loro, ognuno di essi incarnava una diversa sfumatura del gioco per provenienza, ruolo, squadra, carattere, risultati, premi. Solo pochi giorni fa si è ritirato (con l’eleganza che è propria solo dei campioni) Ricardo Kakà, l’ultimo pallone d’oro non assegnato a Messi o Cristiano Ronaldo. Era il 2007: ultimo anno del vecchio mondo, senza YouTube, senza iPhone, senza social network. Dove sono finiti tutti i campioni da invocare prima di un tiro in porta al campetto per potenza iconologica e non per “ignoranza“? Che giochino in serie B o in Champions League, i giocatori sembrano vivere su un altro pianeta: irraggiungibili e intoccabili, sacerdoti eletti depositari di una verità da vedere da lontano o attraverso uno schermo.
Ma ai giocatori di oggi piace ancora giocare a pallone?
Se passasse una palla per strada, sentirebbero anche loro l’impulso di rincorrerla, o sono dei chirurghi che compiono la loro arte solo in sala operatoria a doppi guanti?
Adebayor, Rosicky e Fabregas, mille anni fa
A chi scrive pare che, nell’epoca dello spettacolo sportivo e del feticismo delle merci, gli interpreti odierni manchino di quella personalità che oggi, con il ritiro di Rosicky scompare definitivamente. Nostalgia? Per nulla, quanto piuttosto la constatazione che il tocco di cui era dotato, che i veri numeri 10 sembravano passarsi di generazione in generazione, non è più appannaggio di figure così forti e autosufficienti. Non è questione di sentirsi vecchi, è che – come ebbe a dire Arsène Wenger,
“se ami il calcio, ami Rosicky”
e chi ha amato lui, ha visto cosa vuol dire essere gentiluomini su un prato verde: è ovvio che venga spontaneo il paragone con le immagini che la tv ci ha consegnato attraverso anche gli spot di cui sopra. Nato a Praga il 4 ottobre 1980, debutta nello Sparta Praga a 18 anni, manifestandosi al calcio che conta nel Borussia Dortmund dal 2001, ma consacrandosi definitivamente con dieci stagioni all’Arsenal tra il 2006 e il 2016, per poi concludere la carriera dove aveva iniziato, nella squadra della sua città in quest’ultima stagione. Non altissimo e magrolino, ha costruito la sua fortuna sulla lucidità mentale e sul dolce vigore del tocco: l’uomo in più tra le linee, il mago riservato e discreto col coniglio sempre pronto nel cilindro.
Un giovane e brufoloso Tomàš a colazione a Dortmund nel 2001. Foto Bongarts/Getty Images
La sua carriera è stata spesso rallentata da numerosi infortuni, di cui il più grave gli occorse nel 2008 impedendogli la partecipazione all’Europeo e a tutta la stagione successiva. È senza dubbio uno dei più importanti calciatori cechi di sempre: posato, dotato di una forza tranquilla propria delle personalità sì importanti ma così intelligenti da capire quando mascherarsi per far risaltare la squadra, il risultato. Se lo stile è un insieme di tratti formali, con Rosicky siamo andati oltre: era proprio questione di classe.
Di fronte a un'ingiustizia che sa di sconfitta, Nibali ci insegna a perseverare nella pazienza. Invece della burrasca, il mare calmo, prima che il sole sorga.