Ritratti
02 Dicembre 2020

La leggenda di Shikabala

Una storia vera ma non per questo verosimile.

La genesi, ossia il graduale concretarsi e organizzarsi di un’opera d’arte nella mente dell’artista, prende inizio a un metro scarso dalla linea laterale. L’uomo che ha appena ricevuto un pallone anonimo le rivolge, incurante, le spalle. Quando entra in contatto con la sfera, le pulsazioni (sue e di chi gli gravita attorno) accelerano, prima impercettibilmente, poi – spezzato il raddoppio con un interno-esterno, sinistro e solo sinistro – ecco che i cuori di tutto il Cairo accompagnano, col loro battito ritmato, i passi rapidi e imponderabili dell’uomo col pallone tra i piedi.

 

 

La barba scura a bilanciare la calvizie, una testa che pare troppo grande rispetto alle spalle strette e al busto lungo e magro, fasciato da una maglia bianca con inserti rossi. Sul braccio sinistro una fascia nera, all’altezza del bicipite. Il numero 10, rosso, sulla schiena. “SHIKABALA”, in caratteri rossi anch’esso, si distende da una scapola all’altra. Entra in area di rigore dal lato corto, carezzando la palla per accentrarsi, cercando luce tra i difensori impauriti e compatti. Non guarda mai davvero la porta: con la coda dell’occhio, certo, ma è un orpello.

 

 

Oltre metà della sua vita è trascorsa giocando a calcio per lavoro, conosce bene dove si celebra il matrimonio dei legni col terreno. In virtù di questo, e contro la logica d’accatto dei difensori codardi, che scappano verso la porta e nient’altro, lui se ne allontana, senza degnarla di alcuna attenzione. Guarda solo la palla, ché è più bella, e la bacia con tutta la violenta grazia che c’è nel suo piede sinistro. Poi alza la testa, mentre s’avvita su se stesso. Il pallone s’alza e s’abbassa, d’improvviso. La rete si gonfia, il portiere di marmo. Lo stadio, se non fosse vuoto, verrebbe giù. Shikabala, capitano e simbolo di uno Zamalek indomito, ha pareggiato: 1 a 1.

 

 

Un gol da fenomeno

 

 

 

La parabola dell’uomo ora sommerso dagli abbracci dei compagni incomincia sulle polverose strade dell’arida Assuan, nel sud dell’Egitto, 70 kilometri appena sopra il Tropico del Cancro. Mahmoud Abdelrazek Hassan Fadlala, questo il suo nome. L’apelido con cui è noto lo deve – causa somiglianza, più evidente in gioventù – a Webby Chikabala, attaccante zambiano che guidò i suoi a una vittoria contro l’Egitto nella Coppa d’Africa del gennaio 1992 (1-0, zampata nel caos di Kalusha Bwalya, una tripletta contro l’Italia quattro anni prima a Seul). Morto trentaduenne a causa di una meningite nel dicembre del 1997, non scoprì mai che c’era un suo quasi omonimo a danzare sui campi dell’Africa, dinoccolato e fiero, il piede sinistro un tutt’uno col pallone.

 

 

Tra l’ultima partita di Chikabala e la prima di Shikabala c’è di mezzo poco più di un lustro. Le sabbie del tempo impolverano gli almanacchi, e la tradizione orale ci tramanda uno Shikabala in gol all’esordio, sedicenne, in una partita di coppa. A 17 anni ancora da compiere, gioca in prima squadra: porta sulle spalle il 30, sogna la titolarità, lascia intravedere un talento tecnico fuori dal comune, ma non firma alcun contratto da professionista. Allo Zamalek da quando di anni ne ha dieci, lascia il club in cui è cresciuto nel gennaio del 2005. Gratis.

 

Attraversa il Mediterraneo, va in Grecia: scopre l’Europa a Salonicco, veste il bianconero del PAOK, gioca (anche in Coppa UEFA), segna quattro gol e regala qualche assist. Poi torna in Egitto, deve svolgere il servizio militare.

 

Tifoso dello Zamalek sopra ogni cosa, il suo desiderio di ventenne è tornare a casa. Ma la porta del “Castello bianco” (così è soprannominato il club) pare sbarrata, così – a malincuore – cede alle lusinghe degli acerrimi rivali cittadini dell’Al-Ahly, che lo accolgono soddisfatti nel “Castello rosso”. Il giorno del primo allenamento si rende conto di non poter indossare quel colore, e svolge la seduta vestito di bianco; le incomprensioni cromatiche terminano in quel momento.

 

 

Lo stesso vale per gli allenamenti con l’Al-Ahly: a riportare a casa il figliol prodigo ci pensa Mamdouh Abbas, al tempo presidente dello Zamalek. Per Shikabala è il primo ritorno a Giza, ne seguiranno altri quattro. Perché le complessità caratteriali dell’uomo, abbondanti e innegabili, non sembrano poter essere risolte in alcun modo al Cairo, ma quand’è altrove la quiete non è da nessun’altra parte che non sia Giza.

 

Shikabala Getty
Il tocco felpato e le movenze sinuose di Shikabala. (Photo by Robert Hradil/Getty Images)

 

 

Idolatrato dalla curva sud, il cuore del tifo dello Zamalek, l’intemperanza si manifesta con una frequenza tale da sembrare parte del bagaglio tecnico di Shika. Dopo un derby con l’Al-Ahly, il centesimo della storia, risponde ai fischi sollevando gli scarpini in segno di provocazione. Si scatena un parapiglia in campo, prende una giornata di squalifica. Siamo nel 2007, ha vent’anni e poco più. Il sangue è caldo, presto bollirà. A scottarsi è Hassan Shehata, per l’Egitto un monumento dal baffo impeccabile. Nel 2004 rimpiazza Tardelli sulla panchina della nazionale e vince tre Coppe d’Africa in fila: 2006, 2008, 2010.

 

 

A sollevare quest’ultima c’è anche Shikabala, col quale i rapporti s’incrinano ben presto: a settembre il tecnico lo accusa di aver finto un infortunio per saltare la sfida con la Sierra Leone, mentre a novembre un discusso mal di schiena gli impedisce di rispondere alla convocazione per l’amichevole contro l’Australia. Il 30 dicembre, dopo uno 0 a 0 nel derby, Shikabala dà l’addio alla nazionale motivando la decisione con la voglia di non essere più vittima degli insulti razzisti con cui i tifosi dell’Al-Ahly lo bersagliano incessantemente; il dubbio che i dissapori con l’allenatore abbiano influito su questa decisione è lecito. Come lo si volesse fugare, un semestre più tardi Shehata si siede sulla panchina dello Zamalek.

 

 

Capocannoniere e autore del gol dell’anno nella stagione appena conclusa, Shikabala accoglie con ritrosia quest’intrusione nel suo regno. Eppure, impiega quasi un anno prima di passare il segno. Accade un giorno di maggio, mentre esce dal campo. Al 65esimo lo Zamalek è in vantaggio 2 a 0 sui marocchini del MAS di Fès, il passaggio del turno è ipotecato, e Shehata ovvia all’espulsione di Ahmed Hassan (184 presenze con l’Egitto, nessuno al mondo come lui) inserendo un difensore al posto di Shikabala. Il numero 10 esce dal campo, lancia un braccialetto e grida a Shehata:

«Se non mi vuoi nella tua squadra, lasciami andare!».

L’allenatore lo mette fuori rosa. Mamdouh Abbas, il presidente, prova a convincerlo a reintegrarlo: Shikabala non può avere torto, sembra questo il dogma dell’infallibilità rielaborato nel Castello bianco. Ma Shehata non transige, e l’insubordinato resta fuori squadra. Finché non va al Napoli. Ma il Napoli non lo sa: l’annuncio ufficiale del sito dello Zamalek viene smentito, Di Marzio lo definisce «un pesce d’aprile in ritardo di due mesi». Shika si ritrova a Dubai, col 10 dell’Al-Wasl sulle spalle e Bruno Metsu ad allenarlo.

 

 

Per il commissario tecnico del Senegal dei sogni, quello che nel 2002 regalò gioia e sorrisi in Corea e Giappone, è l’ultima panchina: un cancro al colon se lo porterà via nel giro di qualche mese. Shikabala bacia una sua foto dopo un gol all’Al Dhafra, gli augura pronta guarigione. I tifosi apprezzano. Apprezzano meno quando, dopo un infortunio alla coscia, torna in Egitto per curarsi e non fa rientro a Dubai nella data stabilita dalla società. Che, stufa di sopportare la sua indisciplina, gli comunica che se ne può restare a Giza.

 

Il mancino del grande Shikabala disegna calcio anche con la Nazionale egiziana: torto imperdonabile, con i Faraoni manca il numero 10 (Photo by Robert Hradil/Getty Images)

 

Qui incontra Jorvan Vieira, un uomo – ancor prima che un allenatore – la cui parabola esistenziale di certo non annoierebbe. E che, intransigente, gli nega la possibilità di allenarsi con la squadra, essendo impossibilitato a scendere in campo per questioni burocratiche. Esaurite queste, il 24 luglio 2013 torna a indossare l’amatissima maglia dello Zamalek, e non in una partita qualsiasi: un derby del Cairo, ça va sans dire. L’idillio dura meno di sei mesi: stufo di giocare gratis, Shikabala un giorno di dicembre non si presenta all’allenamento. Lo Zamalek è in ritardo di tre anni nel pagamento degli stipendi, gli deve quasi 800mila dollari.

 

 

Il 5 gennaio rescinde il contratto, poi sigla un nuovo accordo con lo Zamalek: ama troppo quel bianco, per andar via così. Però il 30 gennaio è a Lisbona, firma con lo Sporting a tre minuti dalla chiusura della finestra di mercato e si prende il 7 dei Leões. Lo indossa solo una volta, per 13 minuti, in una sconfitta casalinga contro l’Estoril Praia. A settembre torna in Egitto per rispondere a una convocazione della nazionale e non rimette più piede in Portogallo. Lo Sporting gli congela lo stipendio, lui non gioca per un anno. Il 27 agosto 2015, l’ennesimo ritorno allo Zamalek.

 

Poi qualche altro prestito (Ismaily, Al Raed), prima di tornare a casa per l’ultima volta, il 30 giugno 2019, dopo una stagione in prestito all’Apollōn Smyrnīs, ancora in Grecia, come tanti anni prima.

 

Alla ricerca di gloria, pace e soldi e applausi in tre continenti e infiniti stadi, l’odierno Shikabala è ormai prossimo allo status di leggenda in vita, in campo, conscia dell’imminenza della fine del viaggio, eppure sempre pronta a sbalordire gli astanti, vecchi e nuovi. Il gol che apre il racconto è recente, splendido, importantissimo e inutile al contempo. Perché segnato in quella che è stata la partita più importante della carriera sua e di tutti coloro i quali hanno incrociato con lui i tacchetti sul prato dello stadio internazionale del Cairo.

 

 

L’infinita Champions League africana 2019-2020, iniziata il 9 agosto dello scorso anno e conclusasi il 27 novembre di questo, è stata la prima con finale in gara secca. Fato e tabellone, poi, ci hanno messo del loro, regalandosi e regalandoci un derby del Cairo in finale. Al-Ahly contro Zamalek, due modi d’intendere la vita differenti, ma simili nel riempire le bacheche: prima e seconda per numero di Coppe Campioni d’Africa vinte, 8 a 5 prima dell’ultima sfida.

 

 

Più prossimo al Superclásico che al derbi madrileño, per rimanere in tema di stracittadine che sono valse un continente, le immagini degli spalti pieni avrebbero fatto il giro del mondo. Purtroppo, non è stato possibile. E così gli occhi li ha rapiti Shikabala: il gol, l’infortunio, la sofferenza. Pura mitopoiesi. Ma la partita e la coppa e tutto il resto l’ha vinti l’Al-Ahly. Decisivo un tiro al volo figlio di uno stop in corsa, a cinque minuti dal termine; autore, Mohamed Magdy.

 

 

 

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